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Servizi internet a pagamento

A cura di Giovanni Crea

Il trattamento di dati personali ‘ulteriore’ a quello necessario per la fruizione di un servizio on line (es., accesso a un sito internet) è soggetto al consenso dell’utente-interessato previsto dall’art. 5.3, primo periodo, della direttiva e-privacy . Il consenso dovrebbe derivare da un interesse della persona cui i dati si riferiscono per le finalità di tale ulteriore trattamento (es., ricevere pubblicità durante la navigazione).
La Direttiva (UE) 2019/770, che disciplina alcuni aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali riconosce lo scambio “servizio-dati”; nella prospettiva di tale direttiva il consenso – che si riferisce a una controprestazione in dati personali – è elemento strutturale del contratto.
Premesso che in caso di conflitto tra la Direttiva (UE) 2019/770 e il Regolamento(UE) 2016/679 (GDPR) prevale quest’ultimo, per essere considerato ‘libero’ ai sensi di tale regolamento, il consenso all’ulteriore trattamento non deve essere ‘obbligato’, ad esempio, ponendolo come condizione per l’accesso al servizio.

Come emerge dalle linee guida dell’EDPB , il gestore del sito (titolare del trattamento) deve prevedere un’alternativa con caratteristiche tali che l’eventuale scelta di rilasciare il consenso possa considerarsi libera. Sotto un altro profilo – invero non affrontato dall’EDPB – l’alternativa al consenso può essere portatrice di un diritto fondamentale; in tale evenienza, il diritto alla protezione dei dati personali – di cui, nel caso di specie, il “consenso libero” è espressione – deve trovare un equilibrio con la predetta alternativa. Per questo motivo la controprestazione monetaria, essendo espressione della “libertà d’impresa” riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue all’art. 16, di per sé non integra una violazione del GDPR con riguardo alle condizioni di validità del consenso.

Peraltro, in quanto alternativa al consenso, il pagamento in moneta descrive uno schema diverso dal cookie wall che, invece, non prevede alcuna alternativa, e che, come indica l’art. 7.4, gdpr, va tenuto nella massima considerazione ai fini della valutazione della libertà del consenso.
Va da sé che, in una prospettiva di bilanciamento degli interessi, la controprestazione monetaria non deve essere sproporzionata rispetto al servizio offerto, tale da far ripiegare l’interessato su un consenso che, con tutta probabilità, rifletterebbe una scelta non libera.

  • Ad es., con riguardo ai quotidiani on line, il prezzo praticato all’edicola potrebbe essere un utile riferimento per la fissazione del prezzo on line. Sicché, se il prezzo on line è uguale o anche inferiore al prezzo all’edicola si potrebbe ragionevolmente concludere che l’eventuale ripiego dell’interessato sul consenso sia espressione di una scelta libera.

[1] Cfr. Direttiva 2002/58/CE come modificata dalla Direttiva 2009/136/CE, in GUUE L 337, 18 dicembre 2009, p. 11 ss.

[2] Cfr. Direttiva (UE) 2019/770, relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali, in GUUE, L136, 22 maggio 2019, p.1 ss.

[3] Cfr. EDPB, Linee guida 5/2020 sul consenso ai sensi del regolamento (UE) 2016/679, 4 maggio 2020.

[4] Al riguardo, si rinvia al quarto considerando del GDPR secondo il quale il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità. Lo stesso considerando afferma che il GDPR rispetta tutti i diritti fondamentali e osserva le libertà e i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, sanciti dai trattati, tra cui la libertà d’impresa.

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Giovanni Crea

Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.
Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” 
presso Master Universitari e Corsi specialistici.

 

 

Trasformazione digitale del settore energetico

A cura di Giovanni Crea

La transizione energetica è quel processo che realizza il passaggio da un sistema energetico centrato sui combustibili fossili a uno basato sulle fonti rinnovabili caratterizzate da basse - se non nulle - emissioni di carbonio (c.d. decarbonizzazione). In altre parole, si rimpiazza l’elettricità prodotta da fonti fossili con quella generata da impianti di ultima generazione, ad altissima efficienza (ad esempio, i sistemi eolici).

Ai fini di questo processo la trasformazione digitale del settore energetico[1] offre gli strumenti essenziali, tenuto conto che l’integrazione di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nelle reti energetiche favorisce l’efficienza (risparmio di costi), la creazione di prodotti e servizi più aderenti alle “aspettative di utilità” della domanda e consente attività di monitoraggio e intervento preventivo più efficaci. Sotto quest’ultimo aspetto, la digitalizzazione, grazie all’installazione di dispositivi sensoriali sui sistemi energetici, rende possibile la raccolta in tempo reale di dati riguardanti il loro funzionamento (segnali provenienti da una turbina, da una diga o da una conduttura) e l’invio a un centro di raccolta ove tali dati vengono analizzati a fini di “manutenzione preventiva”[2]. La trasformazione digitale, dunque, ha anche implicazioni sulle attività di manutenzione sotto il profilo della produzione di dati tecnici e della loro valorizzazione.

  • Si pensi, ad esempio, alla rilevazione di un dato di malfunzionamento che permette di intervenire in anticipo, prima che si verifichi un danno; tale attività, di natura predittiva (predictive maintenance)[3], è un particolare tipo di manutenzione preventiva che si esplica mediante il monitoraggio costante - grazie all’applicazione di soluzioni di tipo internet of things - delle condizioni e dello stato degli asset.

La prospettiva di questi e altri vantaggi della trasformazione digitale dei sistemi energetici ha indotto la Commissione europea a sviluppare un piano di azione in tale direzione che prevede misure (investimenti) finalizzate a integrare nell’infrastruttura energetica dell’UE tecnologie digitali, quali l’intelligenza artificiale, le comunicazioni di “quinta generazione” (5G), la connessione tra contatori di consumi energetici e centri di calcolo. Queste nuove tecnologie offrono la possibilità di migliorare l’efficienza e gestire la complessità del sistema energetico lungo tutte le fasi della filiera di approvvigionamento, dalla pianificazione, gestione e manutenzione delle infrastrutture, alla generazione e alla trasmissione fino al consumo di energia.

Al riguardo, l’autorità di Bruxelles ha osservato come, malgrado la digitalizzazione  delle reti energetiche nell’ultimo decennio, la decarbonizzazione richieda un aumento significativo di tale trasformazione e, per questo, appoggerà tutte le iniziative private finalizzate a sfruttare al meglio il potenziale della trasformazione digitale per sostenere la transizione energetica e, con essa, quella ecologica.

Lo scenario prospettico al 2030 delinea pertanto una crescita degli investimenti in particolare quelli strumentali alle energie rinnovabili attraverso i fondi Next Generation EU. Questa crescita sarà guidata anche dal consolidamento di nuovi modelli di collaborazione tra aziende e start up, molto attraenti per entrambe le parti anche in ragione delle implicazioni di riduzione del rischio.

 


[1] Cfr. M. TRESCA, La trasformazione digitale del settore energetico : strumenti di regolazione e nuovi attori, in Diritto costituzionale, n. 2, 2002, 199-2016.

[2] Secondo la norma UNI EN 13306 la manutenzione preventiva è basata sul monitoraggio delle prestazioni di un’entità e/o dei parametri significativi per il suo funzionamento

[3] Cfr. norma UNI EN 13306.

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Giovanni Crea

Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.
Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” 
presso Master Universitari e Corsi specialistici.

 

 

Risanamento del gap salariale

di Concetta Capuano

 

Gender gap nel mondo: la situazione attuale

Si parte da una premessa, che è tratta dalla definizione di “Uguaglianza di genere” dell’EIGE (European Institute for Gender Quality): “L’uguaglianza di genere implica che gli interessi, i bisogni e le priorità di donne e uomini siano presi in considerazione, riconoscendo la diversità dei diversi gruppi di donne e uomini… L’uguaglianza tra donne e uomini è vista sia come una questione dei diritti umani, sia come precondizione e indicatore di uno sviluppo sostenibile incentrato sulle persone”. [1]

Ormai ben consolidato nel nostro vocabolario, il gender gap, è la discrepanza tra uomini e donne, in termini sociali, culturali, educativi, salariali ed occupazionali. A luglio 2022 è stato pubblicato il più recente Global Gender Report che restituisce uno scenario mondiale ancora lento su questo fronte, ovvero che “la parità di genere non si sta riprendendo […] ci vorranno altri 132 anni per colmare il divario di genere globale. Con l’aggravarsi delle crisi, i risultati della forza lavoro femminile stanno soffrendo e il rischio di un regresso della parità di genere globale si intensifica ulteriormente”. [2]

 

Gender gap in Italia nel mondo del lavoro e dell’istruzione

In Italia, la disuguaglia tra donne e uomini è – purtroppo – ancora fortemente radicata: lo dimostra il fatto che anche le campagne politiche “si servono” dell’argomento della lotta al gender gap, ad esempio, nei loro programmi.

Frutto di retaggi culturali ancora spesso inconsciamente radicati, il gender gap nel mondo del lavoro si veste soprattutto da gap salariale. Questi archetipi tendono a riproporsi in manager e organizzazioni che propinano stipendi diversi alle colleghe donne. Ciò potrebbe esacerbare il rischio di povertà o esclusione sociale, conflitti lavoro-famiglia, ripercussioni su salute e benessere.

Spesso però siamo noi stessi a interiorizzare pensieri e credenze erronei, come quando non ci sentiamo adatti per una determinata mansione/percorso di studi/lavoro: quante volte abbiamo ascoltato la favola (tutta italiana) della donna che “se insegna ha il lavoro perfetto, così poi ha il restante tempo della giornata da dedicare alla famiglia!” o dell’uomo che deve trovare un lavoro notevole e che garantisca uno stipendio alto. E noi ci crediamo. Troppe volte non scegliamo per soddisfazione personale, ma per “soddisfazione sociale”. Potrebbe essere questo uno dei motivi per il quale le donne sono sottorappresentate nei settori STEM (science, technology, engineering and mathematics) e il divario di genere è prevalente in due campi: tecnologie dell’informazione e della comunicazione e ingegneria e produzione (indagine EIGE). 

 

Ma c’è un dato interessante per chi studia/lavora in ambito STEM…

Nelle ultime settimane è stata pubblicata dall’Area Lavoro delle ACLI Nazionali, in collaborazione con il Coordinamento Donne ACLI l’indagineLavorare dis/pari, ricerca su disparità salariale e di genere, che ha beneficiato della banca dati Caf Acli e Patronato Acli.

Conferma che il “lavoro povero” è un vissuto soprattutto femminile: tra i lavoratori/trici saltuari/e coloro i quali hanno un reddito annuo complessivo fino a 15.000 euro sono il 68,1% tra le donne, percentuale che scende al 51,5% tra gli uomini. Ma anche tra i/le lavoratori/trici stabili i valori registrati per quella fascia di reddito sono rispettivamente del 24,6% contro il 7,8%. 

C’è però un dato che sorprende – perché ciò che dovrebbe essere ordinario appare ancora straordinario – ovvero che se teniamo conto della settorialità dei lavoratori, l’81,8% delle donne laureate che lavora in ambito STEM guadagna oltre i 1500 euro netti al mese, mentre i colleghi uomini a percepire lo stesso stipendio sono il 79,3% [3]. Ciò significa che non solo il gap salariale è nullo, ma le donne guadagnano di più.

Oltre a dei passi avanti nell’invalidare le disuguaglianze tra generi, di sicuro questa potrebbe essere la base per incoraggiare sempre più ragazze a intraprendere studi STEM per formare figure sempre più richieste dal mercato del lavoro.

 


[1] EIGE (European Institute for Gender Equality) (undated), ‘Gender equality’ in ‘Concepts and ideas’, https://eige.europa.eu/gendermainstreaming/concepts-and-definitions

[2] World Econominc Forum, Global Gender Gap Report 2022

[3] Acli, Lavorare dispari, Ricerca su disparità di genere e salariale

[1] Happily, aumento massimale fringe benefit, 2022

 

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Concetta Capuano

Tirocinante psicologa presso Selefor srl 

 

Caro vita, lavoro e povertà

di Giuliana Cristiano

Le politiche attive del lavoro sono tutte quelle iniziative introdotte dalle Istituzioni, nazionali e locali, per promuovere l’occupazione e l’inserimento lavorativo. I servizi proposti da queste politiche possono essere erogati in primis dai centri per l’impiego, ma anche da Agenzie per il lavoro, scuole e università, nonché dai comuni e dalle associazioni di dipendenti e datori di lavoro[1].

Tra le misure più conosciute vi sono senza dubbio il programma “Garanzia Giovani” e il “reddito di cittadinanza”.

Ma andiamo a vedere più del dettaglio come reagiscono gli Italiani a queste politiche attive.

“Garanzia giovani” è un programma che si rivolge alle imprese e ai datori di lavoro che vogliono inserire nel proprio organico risorse giovani e formate, e al contempo, beneficiare delle agevolazioni previste dal programma stesso che consistono in bonus per le nuove assunzioni (tirocini, apprendistati o passaggi da tirocinio a contratto di lavoro). Inoltre, sono anche previsti degli strumenti per agevolare l’autoimprenditorialità dei giovani che vogliono mettersi in proprio[2].

Anpal rispetto all’adesione a “Garanzia Giovani” riporta dei dati molto interessanti, infatti, al 31 luglio 2022 i Neet (Not (engaged) in Education, Employment or Training, ovvero coloro che non studiano e non lavorano) registrati al programma erano 1.681.329, con un incremento di 7.281 unità rispetto a giugno. I servizi per l’impiego hanno preso in carico più dell’85% dei registrati e di questi quasi l’80% è costituito da giovani con elevate difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro.

Al termine del percorso quasi il 68% degli iscritti ha trovato occupazione e molti di questi a tempo indeterminato. C’è però da precisare che il divario Nord e Sud Italia si percepisce anche in queste stime con lo svantaggio del meridione[3].

In ogni caso, al di là delle disparità territoriali, emerge chiaro il fatto che i giovani italiani oggi sono motivati a trovare una soluzione alla loro condizione di precarietà, lavorando su sé stessi, formandosi e creandosi un’alternativa valida alla disoccupazione e alla povertà.

Discorso diverso invece deve essere fatto per un altro strumento: il tanto discusso e dibattuto “reddito di cittadinanza”.

Questo è una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, che è stata introdotta nel marzo 2019 e che si esplica in un sostegno economico che si integra al reddito familiare. Questa misura oltra a prevedere un sussidio per un lasso di tempo determinato, prevede anche un percorso di reinserimento lavorativo e sociale siglato da un patto di lavoro o un patto di inclusione sociale[4].

Ogni regione italiana, dunque, si è mossa per favorire l’utilizzo di questo strumento, confidando nella sua utilità e in una effettiva possibilità di riqualificazione di quei nuclei familiari più svantaggiati e in difficoltà.

Oggi però, a quasi tre anni dall’introduzione del RDC, nonostante siano molte le persone che hanno richiesto e beneficiato di questo strumento, nono sono altrettanto numerose coloro che hanno concluso il percorso di reinserimento lavorativo. Il quadro infatti è abbastanza allarmante al nord come al sud Italia.

  • In Campania, per esempio, negli ultimi 18 mesi gli imprenditori campani hanno caricato sull’apposita piattaforma MyAnpal 9945 offerte di lavoro, ma le assunzioni di chi percepisce il reddito di cittadinanza sono pari a zero. Nel settore dei servizi dove vi sono più vacancies aperte, non è stata registrata alcuna assunzione, nel settore dell’edilizia invece, su 1716 offerte, vi sono state solo 74 assunzioni[5].

Questo a dimostrare che nonostante vi siano possibilità di lavorare e nonostante i Centri per l’impiego si mobilitino per la ricerca di personale, i beneficiari di questa misura non fanno altrettanto; probabilmente perché non vi sono dei veri e propri controlli nel processo, né sono previste sanzioni per coloro che rifiutano le offerte di lavoro proposte. Si specifica infatti, che i beneficiari del reddito, devono sottoscrivere un patto di lavoro con i centri per l’impiego, ma fino ad oggi, come detto, le prese in carico sono state veramente poche. In Campania nello specifico si sta provvedendo alla cancellazione dall’elenco dei beneficiari le persone con non rispettano il patto, ma la situazione è analoga anche in altre regioni d’Italia[6].

  • La Lombardia, per esempio, ha un quadro simile; infatti, nel 2021 a Milano, su più di 10.000 beneficiari convocati per un primo incontro e la presa in carico dai centri per l’impiego, solo circa 3600 si sono presentati, la restante parte ha completamente disertato o si è resa irreperibile tanto da spingere i suddetti centri a consegnare la convocazione tramite raccomandata. Nel 2022 la situazione è anche peggiorata tanto che i beneficiari in carico sono addirittura dimezzati[7].

Senza dubbio sono ancora molte le misure da poter introdurre e tanto deve essere fatto sia da parte delle istituzioni sia da parte delle imprese e dei lavoratori, ma iniziare a sfruttare ciò che già si ha, potrebbe essere un primo passo verso una, almeno parziale, risoluzione della disoccupazione e della povertà, in un periodo storico in cui le crisi sembrano non voler smettere di susseguirsi.


[1]https://www.lavoro.gov.it/temi-epriorita/occupazione/Pagine/orientamento.aspx#:~:text=Le%20politiche%20attive%20del%20lavoro,occupazione%20e%20l’inserimento%20lavorativo.

[2] https://garanziagiovani.anpal.gov.it/cose-azienda

[3] https://www.anpal.gov.it/documents/552016/821517/S1_Nota+mensile+n7_luglio.pdf/3ff14e73-add0-8b66-a785-6df46eae7523?t=1665730071878

[4] https://www.redditodicittadinanza.gov.it/schede/dettaglio

[5] Iuliano, V., (2022) “Reddito di cittadinanza, in Campania 9.945 lavori ​ma nessuno li accetta”, Il mattino, online. https://www.ilmattino.it/napoli/politica/campania_reddito_di_cittadinanza_offerte_di_lavoro-6751242.html?refresh_ce

[6] Ibidem

[7] Gianni, A. (2022), “Reddito di cittadinanza, fuga dal Centro per l’impiego. Il 60% dei convocati non ci va”, Il giorno, online. https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/centro-impiego-fuga-reddito-cittadinanza-1.8160428 

 

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Giuliana Cristiano 

Tirocinante psicologa presso Selefor srl 

 

 

LA DISCIPLINA DEI COOKIE E LA LEGGENDA DEL LEGITTIMO INTERESSE

A cura di Giovanni Crea

Il provvedimento d’urgenza adottato dal Garante per la protezione dei dati personali lo scorso 7 luglio 2022 nei riguardi della piattaforma Tik Tok ha definitivamente chiarito l’inadeguatezza della base giuridica del legittimo interesse per i trattamenti di dati personali effettuati durante la navigazione in internet e individuati nella archiviazione di informazioni, o l’accesso a informazioni già archiviate, nell’apparecchiatura terminale di un abbonato o utente”.

Questa fattispecie di trattamenti (archiviazione di dati o accesso a dati archiviati), svolti attraverso l’impiego di tecnologie denominate ‘marcatori’ (cookies), è assoggettata al quadro normativo ‘speciale’ rappresentato dalla direttiva c.d. e-privacy, segnatamente l’art. 5.3 e, in diritto interno, dall’art. 122, d.lgs. 196/2003.

Con riguardo ai profili applicativi, vale la pena richiamare le Linee guida del Garante relative all’utilizzo dei cookie e “altri strumenti di tracciamento” in cui l’autorità, riferendosi alla categoria più generale degli ‘identificatori’, oltre i cookies distingue gli identificatori passivi (es., fingerprinting) che consentono di effettuare trattamenti analoghi a quelli sopra tratteggiati.

Le basi giuridiche che legittimano i trattamenti effettuati attraverso i predetti strumenti vanno pertanto ricercate all’interno del quadro ‘speciale’ che, come è immediato verificare, non contempla il legittimo interesse ai sensi del Regolamento (UE) 2016/679 (Gdpr).

La lex specialis prevede il consenso dell’interessato, a meno che i trattamenti siano indispensabili per effettuare trasmissioni di comunicazioni (più precisamente, instradare informazioni su una rete di comunicazione elettronica) finalizzate alla gestione operativa del sito del provider o per la fornitura di un servizio richiesto dall’utente.

Il consenso, dunque, copre tutti i trattamenti le cui finalità sono diverse dalla gestione del sito o dalla prestazione di un servizio, compresi i trattamenti svolti ai fini dell’invio di pubblicità personalizzata.

Per completezza argomentativa, va anche precisato che la base giuridica rappresentata dalla “necessità di gestione operativa del sito” non è ascrivibile a un legittimo interesse nel senso del Gdpr per il semplice motivo che il quadro speciale non prevede, per i relativi trattamenti, alcun test di bilanciamento.

In chiusura, va peraltro osservato che l’istruttoria svolta dal Garante ha fatto emergere come, anche nell’ipotesi in cui le eccezioni al consenso previste dalla direttiva e-privacy fossero riconducibili alla base giuridica del legittimo interesse ai sensi dell’art. 6.1.f), gdpr, il provider ne abbia fatto un uso comunque 'disinvolto'.

  • In primo luogo, perché non ha fornito - se non in modo astratto e insufficiente - elementi concreti che potessero dimostrare l’esecuzione del test di bilanciamento (in particolare, seguendo le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia UE nella sentenza Rīgas satiksme).
  • In secondo luogo, perché la scelta del fondamento giuridico è apparsa espressione di un criterio di convenienza piuttosto che un presupposto aderente alla realtà del trattamento, tenuto conto che in occasione di un precedente intervento del Garante la piattaforma aveva dichiarato l’applicazione del consenso per la somministrazione di pubblicità personalizzata ai maggiori di anni 16.

[1] Cfr. Gpdp, Provv. n. 248/2022, in Registro dei provvedimenti, https://garanteprivacy.it/ web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9788429

[2] direttiva 2002/58/CE come modificata dalla direttiva 2009/136/CE, in GUCE, L 337, 18.12.2009, p. 13.

[3] Cfr. Gpdp, Provv. n. 231/2021, in Registro dei provvedimenti e G.U. n. 163 del 9 luglio 2021.

[4] Cfr. Corte di giustizia Ue, causa C‑13/16, Rīgas satiksme, in Raccolta generale, 4 maggio 2017.

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Giovanni Crea

Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.

Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” presso Master Universitari e Corsi specialistici.

 

ARTICOLO THE CURRENCIES: LA BLOCKCHAIN

di Alessandro Di Capua

Che cos’è una blockchain?

Una blockchain è un database o libro mastro distribuito e condiviso tra i nodi di una rete di computer. In quanto database, una blockchain memorizza tutte le informazioni in formato digitale. Le blockchain sono note soprattutto per il loro ruolo cruciale nelle criptovalute, come Bitcoin, al fine di mantenere un registro sicuro e decentralizzato delle transazioni. La Blockchain garantisce la sicurezza di un database di dati senza la necessità di una terza parte.

Differenze con un semplice Database

Una differenza fondamentale tra un tipico database e una blockchain è il modo in cui sono memorizzati i dati. Una blockchain raccoglie le informazioni in gruppi, noti come blocchi, che non sono altro che un insieme di informazioni. I blocchi hanno una certa capacità di memorizzazione e, una volta riempiti, vengono chiusi e collegati al blocco precedentemente riempito, formando una catena di blocchi da qui il nome BLOCKCHAIN. Tutte le nuove informazioni che seguono il blocco appena aggiunto vengono inserite in un nuovo blocco, una volta riempito, viene aggiunto alla catena e così via.

Un database di solito struttura i suoi dati in tabelle, mentre una blockchain, come dice il nome stesso, struttura i suoi dati in blocchi che sono collegati tra loro. Questa struttura di dati rende dunque irreversibile la cronologia dei dati quando è implementata in modo decentralizzato. Quando un blocco viene riempito, viene fissato nella catena e diventa quindi un pezzo immutabile di questa linea temporale. A ogni blocco della catena viene infatti assegnato un timestamp, un codice che attesta il momento esatto in cui viene aggiunto alla catena.

Dunque come funziona la blockchain

  • Ogni transazione viene registrata come un “blocco” di dati. 

Queste transazioni mostrano il movimento di un bene che può essere tangibile (un prodotto) o intangibile (digitale). Il blocco di dati può registrare diverse informazioni: chi, cosa, quando, dove, quanto e persino le condizioni, come la temperatura di una spedizione di prodotti alimentari…

  • Ogni blocco è collegato a quelli precedenti e successivi.

Questi blocchi formano una catena di dati quando un bene si sposta da un luogo all’altro o cambia proprietà. I blocchi confermano l’ora esatta e la sequenza delle transazioni e si collegano tra loro in modo sicuro per impedire che un blocco venga alterato o che un blocco venga inserito tra due blocchi esistenti.

  • Come detto le transazioni sono bloccate insieme in una catena irreversibile:

Ogni blocco aggiuntivo rafforza la verifica del blocco precedente e quindi dell’intera blockchain. Ciò rende la blockchain inattaccabile, offrendo la forza chiave dell’immutabilità. In questo modo si elimina la possibilità di manomissione da parte di malintenzionati e si crea un registro delle transazioni di cui l’utente e gli altri membri della rete possono fidarsi.

Tipologie di BlockChain:

  1. Reti blockchain pubbliche: Una blockchain pubblica è quella a cui chiunque può aderire e partecipare, come ad esempio Bitcoin. Gli svantaggi possono essere la notevole potenza di calcolo richiesta, la scarsa o nulla privacy delle transazioni e la scarsa sicurezza. Si tratta di considerazioni importanti per i casi di utilizzo della blockchain in ambito aziendale.
  2. Reti blockchain private:Una rete blockchain privata, simile a una rete blockchain pubblica, è una rete peer-to-peer decentralizzata. Tuttavia, un’organizzazione governa la rete, controllando chi può partecipare. A seconda del caso d’uso, questo può aumentare significativamente la sicurezza tra i partecipanti. Una blockchain privata può essere gestita dietro un firewall aziendale e persino ospitata in sede.
  3. Blockchain consortili: Più organizzazioni possono condividere le responsabilità di gestire una blockchain. Queste organizzazioni preselezionate determinano chi può inviare transazioni o accedere ai dati. Una blockchain consortile è ideale per le aziende quando tutti i partecipanti devono essere autorizzati e hanno una responsabilità condivisa per la blockchain.

Perché la blockchain è importante: Qualsiasi business si basa sui dati per cui quanto più velocemente vengono ricevuti e quanto più sono accurati, tanto meglio è. La blockchain è ideale per questo utilizzo perché rende visibili questi dati nell’immediato e in modo completamente trasparente, dato che sono memorizzate su un libro mastro immutabile a cui possono accedere solo i membri della rete autorizzati. Una rete blockchain può tracciare ordini, pagamenti, conti, produzioni e molto altro. E poiché i membri hanno davanti un’unica blockchain, è possibile vedere tutti i dettagli di una transazione da cima a fondo, offrendo maggiore fiducia all’azienda, ai dipendenti e ai clienti stessi.

 

Il processo di digitalizzazione in Italia, partire dalla formazione per un mercato del lavoro sempre più aperto al digital.

A cura di Redazione Crefis 

Nel 2014 la Commissione Europea ha introdotto l’indice DESI (Digital Economy and Society Index), lo scopo di quest’indice è quello di far convergere nel lungo periodo i mercati nazionali in un unico mercato digitale per valutare e misurare il processo di digitalizzazione sia in ambito economico che della società più in generale.

I dati di quest’anno per l’Italia non sono molto incoraggianti; infatti, per i 4 indicatori utilizzati (capitale umano; connettività; integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali), l’Italia si è posizionata agli ultimi posti.
Andando ad esaminare gli indici nel dettaglio emerge che: per il “capitale umano” (le competenze digitali della popolazione), siamo terzultimi in Europa, la quota di imprese che ha offerto formazione in ambito ICT ai propri dipendenti si ferma al 16%, contro una media europea del 20%; siamo ultimi nel continente per quota di laureati in ambito ICT sul totale della popolazione con una laurea.
Per quanto riguarda la “connettività” (cioè lo sviluppo della banda larga e la sua accessibilità) invece l’Italia si posiziona all’ultimo posto anche se bisogna considerare che questo dato è viziato dal forte divario tra famiglie che usano la banda larga, talvolta anche migliore di altri paesi, e famiglie in cui non la stessa non è adottata.
Rispetto all’”integrazione delle tecnologie digitali“, cioè quanto il digitale sia ormai permeato nelle imprese italiane, ci posizioniamo decisamente meglio, al decimo posto.
In ultimo per i “servizi pubblici digitali” emergono due situazioni diverse poiché, nonostante i servizi pubblici mettano a disposizione dell’utenza le proprie piattaforme digitali, solo una piccola parte dei cittadini usufruisce dei servizi online della Pubblica Amministrazione[1].

Il quadro è quindi ben chiaro, il Bel Paese dovrebbe investire molto di più sul processo di digitalizzazione.

Come farlo? Cambiando l’approccio già a partire dalla formazione dei giovani.

Dal report di Almalaurea del 2022, infatti, nonostante vi sia stato un sensibile aumento delle iscrizioni ai corsi STEM (+14% rispetto all’A.A. 2003/2004) e in ambito ICT, il numero di immatricolazioni è ancora basso, il tutto è inoltre associato al fatto che la laurea, in particolare in quest’ambito, sul mercato del lavoro è ancora poco valorizzata, è necessario apportare un cambiamento radicale nella cultura della società[2].

Selefor, che da diversi anni si occupa prevalentemente del settore ICT, ha chiesto alla responsabile del settore HR , dottoressa Raffaella Nolasco, un suo pensiero rispetto alle possibilità di assunzione di profili professionali in ambito digital

La Nolasco è fiduciosa, tiene a precisare che seppur vi siano ancora poche candidature, le posizioni aperte per figure professionali nel settore iniziano ad aumentare. Ciò significa che forse, anche grazie ai recenti stravolgimenti della quotidianità causati della pandemia, sia le aziende che i comuni cittadini che usufruiscono dei servizi online hanno preso consapevolezza di quanto la figura del programmatore (o in generale di tecnico informatico) sia essenziale anche per le attività più semplici (basti pensare all’assistenza informatica help desk) aumentando quindi il numero di richieste in questo ambito.
D’altronde la figura dello sviluppatore, in Italia, è ancora relativamente recente e soprattutto in continua evoluzione.

I candidati non occupati spesso o sono giovani, ancora in fase di formazione e quindi meno esperti di quanto l’azienda committente vorrebbe, oppure sono persone con un consisterete background esperienziale alle spalle e dunque una RAL molto più alta di quanto le aziende possono permettersi per competere.

Ma le potenzialità ci sono e sono molte, bisognerà solo investirci! 


[1] https://blog.osservatori.net/it_it/desi-indice-digitalizzazione-italia#:~:text=Il%20Digital%20Economy%20and%20Society%20Index%20(DESI)%20%C3%A8%20un%20indice,verso%20un%20unico%20mercato%20digitale.

[2] https://www.almalaurea.it/informa/news/2022/06/15/rapporto-almalaurea-2022

 

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Violazioni di dati personali, tra rischi e investimenti

A cura di Redazione Selefor CReFIS 

La penetrazione delle tecnologie digitali nelle attività di famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni implica la codifica di tali attività in dati che vengono elaborati per il perseguimento delle rispettive finalità. In questa prospettiva, i processi di funzionamento di un paese integrano trattamenti di grandi quantità di risorse informative, in tal modo delineando un nuovo modello socioeconomico di cui vengono esaltate, principalmente dagli economisti, l’efficacia e l’efficienza.

D’altro canto, la crescente dipendenza dalle tecnologie e dalle rappresentazioni informative che queste producono ha ampliato le occasioni di violazione per cui le organizzazioni e le persone sono esposte a rischi riguardanti diritti, libertà e legittimi interessi. Incidenti come quello che ha coinvolto la Regione Lazio nell’agosto 2021 sono chiari esempi di come una violazione della sicurezza informatica – nel caso specifico una indisponibilità di servizi e dati – possa produrre ricadute sugli interessati. Nel caso specifico l’indisponibilità ha riguardato dati relativi alle prenotazioni per la somministrazione dei vaccini con conseguenti disagi per le persone interessate rappresentati, tra gli altri, dall’inevitabile rinvio della somministrazione e del rilascio della relativa certificazione.   

Questo e altri casi mettono in luce anche il mancato adeguamento delle organizzazioni alle norme previste dal regolamento europeo relativo alla protezione dei dati personali che contemplano, tra gli altri obblighi, l’adozione di misure tecnologiche e organizzative idonee a prevenire le minacce che possano determinare, ad esempio, la loro distruzione, perdita o divulgazione non autorizzata e, se del caso, anche misure correttive per porre rimedio alle violazioni che si sono comunque verificate.

I soggetti pubblici e privati sono pertanto chiamati a organizzarsi e ad investire nella sicurezza dei trattamenti di dati personali. Ma sono proprio gli investimenti a rappresentare la nota dolente delle politiche di sicurezza, specie nelle realtà di piccole dimensioni dove tali investimenti trovano poco spazio sia per ragioni di limitata disponibilità di risorse economiche sia perché i manager tendono a considerarli solo un un flusso di cassa in uscita senza una prospettiva di rendimento. Prospettiva che, invece, esiste ed è rappresentata dai “costi evitati” e da altri “benefici intangibili” (accessori, supplementari) che, nel medio-lungo periodo, sono superiori agli investimenti in sicurezza richiesti. Tuttavia, per comprendere il ritorno derivante dagli investimenti in sicurezza (return on security investment) c’è bisogno di formazione continua, comunicazione, sensibilizzazione, affinché la sicurezza e la protezione dei dati personali possano trovare spazio nella cultura organizzativa, andando oltre le norme giuridiche.


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L’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) sul mondo del lavoro: nuovi modelli organizzativi e nuovi compiti per l’HR

di Giuliana Cristiano 

L’introduzione delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro e delle organizzazioni è associabile, tra le altre cose, all’accelerazione tecnologica a cui si aggiunge una conseguente accelerazione dei cambiamenti sociali e dei ritmi di vita. Ci troviamo in quella fase storica che gli esperti hanno ribattezzato “era dell’industria 4.0” in cui le nuove tecnologie, sia nella produzione che nell’erogazione dei servizi, la fanno da padrona[1]. 

Nel mondo del lavoro, l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate non sta andando a sostituire solo i processi che prima richiedevano uno sforzo fisico, come la produzione industriale, ma gradualmente sta invadendo anche un settore che fino a poco tempo fa era squisitamente umano, per esempio i processi aziendali di decision making e lo scambio di informazioni. La svolta decisiva in questo senso è avvenuta grazie (o a causa) della diffusione capillare di internet che è diventato una componente essenziale della vita quotidiana della quasi totalità della popolazione attiva mondiale. L’uso massiccio della rete ha determinato, come effetto collaterale, un costante e velocissimo accumulo di dati che, se usati con astuzia, sono uno strumento indispensabile per chi ha necessità di conoscere l’utente ultimo a cui va erogato il servizio o va offerto un prodotto. I big data infatti abbinati all’intelligenza artificiale, permettono il cosiddetto “learning machine” ovvero fanno sì che la macchina (il software) letteralmente impari dai dati che gli vengono messi a disposizione [2].

L’intelligenza artificiale d’altronde non è altro che un ramo dell’informatica, nato nel 1956, che permette di programmare le macchine affinché possano avere caratteristiche cognitive tipicamente umane [3]. L’IA ha un impatto decisivo su diversi livelli, da quello individuale a quello della società. Gli stessi modelli organizzativi hanno subito e subiranno notevoli cambiamenti: le principali sfide da affrontare sono legate alla necessità di acquisire sempre maggiori competenze da parte del personale per il suo utilizzo, capacità quindi di affrontare gli eventuali problemi tecnologici, la necessità di un continuo controllo e il bisogno di fiducia, nonché una ridefinizione della life-work balance. I rischi principali per i lavoratori e le aziende si traducono nella riduzione della privacy, nella possibilità di sviluppare una dipendenza da queste tecnologie e un forte stress lavoro correlato che potrebbe sfociare addirittura nel burnout. I vantaggi però, se l’IA viene usata bene, sono notevoli, in quanto si riducono i costi, vi sono maggiori e migliori feedback sul lavoro da parte della macchina, vi è un miglioramento della qualità dei servizi e prodotti offerti, e se si agisce adeguatamente sulla pianificazione dello smart working, va ad avere risvolti positivi anche sella qualità della vita dei dipendenti. Nonostante alcuni studi tra il 2016 e il 2017 stimarono una sostituzione della manodopera umana con quella artificiale che andava dal 10%[4] al 47%[5], dati molto più recenti hanno dimostrato che la cultura aziendale e l’intelligenza artificiale sono due aspetti organizzativi che si influenzano reciprocamente, tanto che è stato sviluppato un modello detto “CUE” (Culture-Use-Effectiveness Dynamic)che dimostra quanto la cultura migliora l’uso dell’IA che a sua volta migliora i rapporti del team. Questo circolo determina più efficienza e alte prestazioni. Traendo le somme, se utilizzata con astuzia e senza pregiudizio, l’intelligenza artificiale può essere una potente arma verso l’innovazione e il successo dell’azienda sia dal punto di vista produttivo che di benessere del lavoratore[6].

In questo contesto il lavoro degli HR è molto interessante in quanto oltre ad occuparsi della condizione di benessere del lavoratore già assunto, di cui abbiamo parlato poc’anzi, si occupano di acquisizione di nuovi profili. Se fino a qualche anno fa, il recruiter doveva scegliere tra una vasta gamma di offerenti che si proponevano attivamente, oggi, anche grazie alle nuove tecnologie, la cultura del lavoro è cambiata al punto che il potenziale lavoratore è fondamentalmente passivo, carica il suo cv su piattaforme ad hoc e aspetta che sia l’azienda a proporsi. L’HR, quindi, può lasciare l’onere dello screening al software per dedicarsi ad un’attività più lungimirante: la talent acquisition, cioè non semplicemente il processo di ricerca di un lavoratore, ma la ricerca del “talento” adatto all’azienda non soltanto nella risoluzione del problema odierno, ma anche in visione dell’evoluzione dell’azienda stessa e dei suoi problemi a lungo termine[7].

Anche per il recruiting però bisogna agire con cautela: sono diversi, infatti, i casi in cui l’utilizzo dell’IA ha avuto esiti negativi sull’azienda, in particolare un esempio clamoroso è stato quello della grande multinazionale Amazon che a partire dal 2014 ha iniziato ad utilizzare un software per la selezione dei nuovi dipendenti da assumere. A questo software “era stato insegnato” a selezionare i candidati basandosi sui dati estrapolati dei curriculum di dipendenti assunti nei 10 anni precedenti, prevalentemente uomini: si arrivò al punto che la macchina aveva imparato che assumere uomini fosse meglio prediligendo CV con parole come: “eseguito” o “acquisito” tipiche degli ingegneri maschi e scartando quelli in cui c’era scritto “delle donne” o simili. Il software era sessista. Nonostante diversi accorgimenti la situazione non migliorò così il progetto fallì nel 2017[8], lasciando un insegnamento che almeno per ora non può essere ignorato: quando si tratta di scelte sul versante etico e morale, l’uomo ha e deve avere ancora la meglio sulla macchina.   


[1] Falcone, R., Capirci, O., Lucidi, F., Zoccolotti, P., Prospettive di intelligenza artificiale: mente, lavoro e società nel mondo del machine learning, in “Giornale italiano di psicologia”, n.1, pp.43-68, 2018.

[2] Ibidem

[3] www.Intelligenzaartificiale.it 

[4] Arntz M.T., Gregory T., Zierahn U., The Risk Of Automation For Jobs In Oecd Countries: A Comparative Analysis, in “OECD Social, Employment And Migration Working Papers”, n. 189, 2016.

[5] Frey C.B., Osborne M.A, The Future Of Employment: How Susceptible Are Jobs To Computerization?, in “Technological Forecasting And Social Change”, n. 114, pp. 254-280, 2017.

[6] Ransbotham, S., Candelon, F., Kiron, D., LaFountain, B., Khodabandeh, S., The Cultural Benefits of Artificial Intelligence in the Enterprise, in “MIT Sloan Management Review and Boston Consulting Group”, novembre 2021.

[7] Alashmawy, A., Yazdanifard, R., A Review of the Role of Marketing in Recruitment and Talent Acquisition, in “International Journal of Management, Accounting and Economics”, n. 7, pp. 569-581, 2019.

[8] De Casco A. F., Amazon e l’intelligenza artificiale sessista: non assumeva donne, in “Corriere della Sera – Tecnologia”, 10 ottobre 2018 online: https://www.corriere.it/tecnologia/18_ottobre_10/amazon-intelligenza-artificiale-sessista-non-assumeva-donne-4de90542-cc89-11e8-a06b-75759bb4ca39.shtml  

 

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Giuliana Cristiano 

Dottoressa in Psicologia applicata ai contesti istituzionali
Psicologa Tirocinante in Selefor srl  

Dall’idea al prodotto finale: l’uso intelligente dei big data

Di Giuliana Cristiano

Eric Ries nel 2012 definì la startup come “un’istituzione umana studiata per creare nuovi prodotti e servizi in condizioni di estrema incertezza”. Seppur con questo termine si va ad inquadrare una impresa allo stato nascente (in Italia con meno di cinque anni), lo startupping deve essere considerato più una filosofia imprenditoriale dedita alla continua innovazione e trasformazione, in cui quindi l’uso della tecnologia a proprio vantaggio ne è l’essenza[1]. L’imprenditore, in questo caso spesso definito con l’anglicismo “founder”, è un individuo ambizioso e consapevole che seppur stia rischiando investendo una somma di denaro più o meno ingente sulla propria idea, lo sta facendo con lo scopo di apportare un cambiamento prima alla propria realtà e poi a quella globale[2].

La startup, quindi, paradossalmente più che un fine imprenditoriale, potrebbe essere concepita come un mezzo attraverso cui permettere il cambiamento.

È importante tener presente che innovare non significa solo inventare qualcosa di nuovo, ma anche analizzare l’esistente e modificarlo per renderlo accessibile ad altri[3]. Il punto di forza sta nell’essere in grado di osservare il mondo ragionando fuori dagli schemi evitando di cadere nella cosiddetta doppia opacità: non vediamo altre alternative alla realtà e non ci accorgiamo di non vederle[4].

Ma quindi oggi nel pieno della nuova era industriale in cui la trasformazione digitale la fa da padrona, come si può superare tale opacità e rendere la realtà più “trasparente”?

I big data sembrano essere l’arma vincente e la risposta a questo quesito, in quanto permettono una perenne innovazione e garantiscono la competitività sul mercato[5]. Assumere un modello organizzativo che non contempli l’uso di questi dati con il passare del tempo potrebbe diventare rischioso in quanto le aziende potrebbero gradualmente perdere terreno e addirittura fallire[6].

Prima di approfondire è necessario dare una definizione di “big data”: con questo termine si intende un insieme molto vasto di dati derivanti sia dalle attività concrete burocratiche, legislative, economiche e di pianificazione, sia un accumulo spontaneo di informazioni derivanti dall’uso sempre più consistente di internet in cui vi è un perenne scambio di informazioni[7] spesso anche molto personali come preferenze, stile di vita, ambizioni e aspettative.   

Gli imprenditori, dunque, devono avere nel team qualcuno che sappia maneggiare con abilità quest’arma in particolar modo tenendo in considerazione l’estremo potere dei social su cui ognuno riversa la propria vita. Capire quali sono i gusti, le preferenze, lo stile di vita, le ambizioni e i valori del costumer, permette di vendere meglio e di più e quindi garantisce non solo la sopravvivenza dell’impresa e il suo successo, ma anche la soddisfazione del cliente.

D’altronde lo stesso Ries, nel 2012, propose di “uscire dal palazzo” cioè incontrare i consumatori e capirne le esigenze sviluppando un prodotto che sia in linea con le stesse[8].

I big data però possono avere anche dei risvolti negativi in quanto la quantità, la velocità di accumulo e la varietà degli stessi, potrebbe generare confusione e innescare bias “di conferma”, problemi di comunicazione e illusione di controllo, ma utilizzando il metodo lean startup ciò potrebbe essere arginato in quanto esso si fonda sulla perenne verifica “scientifica” delle idee e delle ipotesi manageriali. Questo processo è decisamente funzionale soprattutto per quelle realtà organizzative con alti livelli di incertezza tecnologica come le startup o in generale le aziende che puntano all’innovazione[9].

Traendo le somme il processo circolare che conduce allo sviluppo e permette costante innovazione nonché quindi il successo dell’impresa, è rappresentabile come una sequenza input-output:

 


[1] Ries, E., La startup way, Franco Angeli Editore, Milano 2017.

[2] Schumpeter, J. A., Teoria dello sviluppo economico, Milano, ETAS 2002.

[3] Ries, E., Partire leggeri: il metodo lean startup,  Rizzoli, Milano, 2012.

[4] Ota de Leonardis, Istituzioni, Carocci Editore, Roma 2001.

[5] Behl, A., Antecedents to firm performance and competitiveness using the lens of big data analytics: a cross-cultural study, in “Management Decision”, n.2, 2022, pp. 368-398.

[6] Nuccio M, Guerzoni M., Big data: Hell or heaven? Digital platforms and market power in the data-driven economy, in “Competition & Change”. N.3, 2019, pp.312-328.

[7] Aragona, B., Big data o data that are getting bigger?.  In “Sociologia e ricerca sociale” n. 109, 2016, pp. 42-53.

[8] Ries, E., Partire leggeri: il metodo lean startup, cit.

[9] Seggie, S. H., Soyer, E., & Pauwels, K. H., Combining big data and lean startup methods for business model evolution, in “AMS Review”, n.3, 2017, pp. 154-169.

 

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Giuliana Cristiano 

Dottoressa in Psicologia applicata ai contesti istituzionali
Psicologa tirocinante in Selefor srl