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Servizi internet a pagamento

A cura di Giovanni Crea

Il trattamento di dati personali ‘ulteriore’ a quello necessario per la fruizione di un servizio on line (es., accesso a un sito internet) è soggetto al consenso dell’utente-interessato previsto dall’art. 5.3, primo periodo, della direttiva e-privacy . Il consenso dovrebbe derivare da un interesse della persona cui i dati si riferiscono per le finalità di tale ulteriore trattamento (es., ricevere pubblicità durante la navigazione).
La Direttiva (UE) 2019/770, che disciplina alcuni aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali riconosce lo scambio “servizio-dati”; nella prospettiva di tale direttiva il consenso – che si riferisce a una controprestazione in dati personali – è elemento strutturale del contratto.
Premesso che in caso di conflitto tra la Direttiva (UE) 2019/770 e il Regolamento(UE) 2016/679 (GDPR) prevale quest’ultimo, per essere considerato ‘libero’ ai sensi di tale regolamento, il consenso all’ulteriore trattamento non deve essere ‘obbligato’, ad esempio, ponendolo come condizione per l’accesso al servizio.

Come emerge dalle linee guida dell’EDPB , il gestore del sito (titolare del trattamento) deve prevedere un’alternativa con caratteristiche tali che l’eventuale scelta di rilasciare il consenso possa considerarsi libera. Sotto un altro profilo – invero non affrontato dall’EDPB – l’alternativa al consenso può essere portatrice di un diritto fondamentale; in tale evenienza, il diritto alla protezione dei dati personali – di cui, nel caso di specie, il “consenso libero” è espressione – deve trovare un equilibrio con la predetta alternativa. Per questo motivo la controprestazione monetaria, essendo espressione della “libertà d’impresa” riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue all’art. 16, di per sé non integra una violazione del GDPR con riguardo alle condizioni di validità del consenso.

Peraltro, in quanto alternativa al consenso, il pagamento in moneta descrive uno schema diverso dal cookie wall che, invece, non prevede alcuna alternativa, e che, come indica l’art. 7.4, gdpr, va tenuto nella massima considerazione ai fini della valutazione della libertà del consenso.
Va da sé che, in una prospettiva di bilanciamento degli interessi, la controprestazione monetaria non deve essere sproporzionata rispetto al servizio offerto, tale da far ripiegare l’interessato su un consenso che, con tutta probabilità, rifletterebbe una scelta non libera.

  • Ad es., con riguardo ai quotidiani on line, il prezzo praticato all’edicola potrebbe essere un utile riferimento per la fissazione del prezzo on line. Sicché, se il prezzo on line è uguale o anche inferiore al prezzo all’edicola si potrebbe ragionevolmente concludere che l’eventuale ripiego dell’interessato sul consenso sia espressione di una scelta libera.

[1] Cfr. Direttiva 2002/58/CE come modificata dalla Direttiva 2009/136/CE, in GUUE L 337, 18 dicembre 2009, p. 11 ss.

[2] Cfr. Direttiva (UE) 2019/770, relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali, in GUUE, L136, 22 maggio 2019, p.1 ss.

[3] Cfr. EDPB, Linee guida 5/2020 sul consenso ai sensi del regolamento (UE) 2016/679, 4 maggio 2020.

[4] Al riguardo, si rinvia al quarto considerando del GDPR secondo il quale il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità. Lo stesso considerando afferma che il GDPR rispetta tutti i diritti fondamentali e osserva le libertà e i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, sanciti dai trattati, tra cui la libertà d’impresa.

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Giovanni Crea

Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.
Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” 
presso Master Universitari e Corsi specialistici.

 

 

Trasformazione digitale del settore energetico

A cura di Giovanni Crea

La transizione energetica è quel processo che realizza il passaggio da un sistema energetico centrato sui combustibili fossili a uno basato sulle fonti rinnovabili caratterizzate da basse - se non nulle - emissioni di carbonio (c.d. decarbonizzazione). In altre parole, si rimpiazza l’elettricità prodotta da fonti fossili con quella generata da impianti di ultima generazione, ad altissima efficienza (ad esempio, i sistemi eolici).

Ai fini di questo processo la trasformazione digitale del settore energetico[1] offre gli strumenti essenziali, tenuto conto che l’integrazione di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nelle reti energetiche favorisce l’efficienza (risparmio di costi), la creazione di prodotti e servizi più aderenti alle “aspettative di utilità” della domanda e consente attività di monitoraggio e intervento preventivo più efficaci. Sotto quest’ultimo aspetto, la digitalizzazione, grazie all’installazione di dispositivi sensoriali sui sistemi energetici, rende possibile la raccolta in tempo reale di dati riguardanti il loro funzionamento (segnali provenienti da una turbina, da una diga o da una conduttura) e l’invio a un centro di raccolta ove tali dati vengono analizzati a fini di “manutenzione preventiva”[2]. La trasformazione digitale, dunque, ha anche implicazioni sulle attività di manutenzione sotto il profilo della produzione di dati tecnici e della loro valorizzazione.

  • Si pensi, ad esempio, alla rilevazione di un dato di malfunzionamento che permette di intervenire in anticipo, prima che si verifichi un danno; tale attività, di natura predittiva (predictive maintenance)[3], è un particolare tipo di manutenzione preventiva che si esplica mediante il monitoraggio costante - grazie all’applicazione di soluzioni di tipo internet of things - delle condizioni e dello stato degli asset.

La prospettiva di questi e altri vantaggi della trasformazione digitale dei sistemi energetici ha indotto la Commissione europea a sviluppare un piano di azione in tale direzione che prevede misure (investimenti) finalizzate a integrare nell’infrastruttura energetica dell’UE tecnologie digitali, quali l’intelligenza artificiale, le comunicazioni di “quinta generazione” (5G), la connessione tra contatori di consumi energetici e centri di calcolo. Queste nuove tecnologie offrono la possibilità di migliorare l’efficienza e gestire la complessità del sistema energetico lungo tutte le fasi della filiera di approvvigionamento, dalla pianificazione, gestione e manutenzione delle infrastrutture, alla generazione e alla trasmissione fino al consumo di energia.

Al riguardo, l’autorità di Bruxelles ha osservato come, malgrado la digitalizzazione  delle reti energetiche nell’ultimo decennio, la decarbonizzazione richieda un aumento significativo di tale trasformazione e, per questo, appoggerà tutte le iniziative private finalizzate a sfruttare al meglio il potenziale della trasformazione digitale per sostenere la transizione energetica e, con essa, quella ecologica.

Lo scenario prospettico al 2030 delinea pertanto una crescita degli investimenti in particolare quelli strumentali alle energie rinnovabili attraverso i fondi Next Generation EU. Questa crescita sarà guidata anche dal consolidamento di nuovi modelli di collaborazione tra aziende e start up, molto attraenti per entrambe le parti anche in ragione delle implicazioni di riduzione del rischio.

 


[1] Cfr. M. TRESCA, La trasformazione digitale del settore energetico : strumenti di regolazione e nuovi attori, in Diritto costituzionale, n. 2, 2002, 199-2016.

[2] Secondo la norma UNI EN 13306 la manutenzione preventiva è basata sul monitoraggio delle prestazioni di un’entità e/o dei parametri significativi per il suo funzionamento

[3] Cfr. norma UNI EN 13306.

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Giovanni Crea

Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.
Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” 
presso Master Universitari e Corsi specialistici.

 

 

Risanamento del gap salariale

di Concetta Capuano

 

Gender gap nel mondo: la situazione attuale

Si parte da una premessa, che è tratta dalla definizione di “Uguaglianza di genere” dell’EIGE (European Institute for Gender Quality): “L’uguaglianza di genere implica che gli interessi, i bisogni e le priorità di donne e uomini siano presi in considerazione, riconoscendo la diversità dei diversi gruppi di donne e uomini… L’uguaglianza tra donne e uomini è vista sia come una questione dei diritti umani, sia come precondizione e indicatore di uno sviluppo sostenibile incentrato sulle persone”. [1]

Ormai ben consolidato nel nostro vocabolario, il gender gap, è la discrepanza tra uomini e donne, in termini sociali, culturali, educativi, salariali ed occupazionali. A luglio 2022 è stato pubblicato il più recente Global Gender Report che restituisce uno scenario mondiale ancora lento su questo fronte, ovvero che “la parità di genere non si sta riprendendo […] ci vorranno altri 132 anni per colmare il divario di genere globale. Con l’aggravarsi delle crisi, i risultati della forza lavoro femminile stanno soffrendo e il rischio di un regresso della parità di genere globale si intensifica ulteriormente”. [2]

 

Gender gap in Italia nel mondo del lavoro e dell’istruzione

In Italia, la disuguaglia tra donne e uomini è – purtroppo – ancora fortemente radicata: lo dimostra il fatto che anche le campagne politiche “si servono” dell’argomento della lotta al gender gap, ad esempio, nei loro programmi.

Frutto di retaggi culturali ancora spesso inconsciamente radicati, il gender gap nel mondo del lavoro si veste soprattutto da gap salariale. Questi archetipi tendono a riproporsi in manager e organizzazioni che propinano stipendi diversi alle colleghe donne. Ciò potrebbe esacerbare il rischio di povertà o esclusione sociale, conflitti lavoro-famiglia, ripercussioni su salute e benessere.

Spesso però siamo noi stessi a interiorizzare pensieri e credenze erronei, come quando non ci sentiamo adatti per una determinata mansione/percorso di studi/lavoro: quante volte abbiamo ascoltato la favola (tutta italiana) della donna che “se insegna ha il lavoro perfetto, così poi ha il restante tempo della giornata da dedicare alla famiglia!” o dell’uomo che deve trovare un lavoro notevole e che garantisca uno stipendio alto. E noi ci crediamo. Troppe volte non scegliamo per soddisfazione personale, ma per “soddisfazione sociale”. Potrebbe essere questo uno dei motivi per il quale le donne sono sottorappresentate nei settori STEM (science, technology, engineering and mathematics) e il divario di genere è prevalente in due campi: tecnologie dell’informazione e della comunicazione e ingegneria e produzione (indagine EIGE). 

 

Ma c’è un dato interessante per chi studia/lavora in ambito STEM…

Nelle ultime settimane è stata pubblicata dall’Area Lavoro delle ACLI Nazionali, in collaborazione con il Coordinamento Donne ACLI l’indagineLavorare dis/pari, ricerca su disparità salariale e di genere, che ha beneficiato della banca dati Caf Acli e Patronato Acli.

Conferma che il “lavoro povero” è un vissuto soprattutto femminile: tra i lavoratori/trici saltuari/e coloro i quali hanno un reddito annuo complessivo fino a 15.000 euro sono il 68,1% tra le donne, percentuale che scende al 51,5% tra gli uomini. Ma anche tra i/le lavoratori/trici stabili i valori registrati per quella fascia di reddito sono rispettivamente del 24,6% contro il 7,8%. 

C’è però un dato che sorprende – perché ciò che dovrebbe essere ordinario appare ancora straordinario – ovvero che se teniamo conto della settorialità dei lavoratori, l’81,8% delle donne laureate che lavora in ambito STEM guadagna oltre i 1500 euro netti al mese, mentre i colleghi uomini a percepire lo stesso stipendio sono il 79,3% [3]. Ciò significa che non solo il gap salariale è nullo, ma le donne guadagnano di più.

Oltre a dei passi avanti nell’invalidare le disuguaglianze tra generi, di sicuro questa potrebbe essere la base per incoraggiare sempre più ragazze a intraprendere studi STEM per formare figure sempre più richieste dal mercato del lavoro.

 


[1] EIGE (European Institute for Gender Equality) (undated), ‘Gender equality’ in ‘Concepts and ideas’, https://eige.europa.eu/gendermainstreaming/concepts-and-definitions

[2] World Econominc Forum, Global Gender Gap Report 2022

[3] Acli, Lavorare dispari, Ricerca su disparità di genere e salariale

[1] Happily, aumento massimale fringe benefit, 2022

 

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Concetta Capuano

Tirocinante psicologa presso Selefor srl 

 

Caro vita, lavoro e povertà

di Giuliana Cristiano

Le politiche attive del lavoro sono tutte quelle iniziative introdotte dalle Istituzioni, nazionali e locali, per promuovere l’occupazione e l’inserimento lavorativo. I servizi proposti da queste politiche possono essere erogati in primis dai centri per l’impiego, ma anche da Agenzie per il lavoro, scuole e università, nonché dai comuni e dalle associazioni di dipendenti e datori di lavoro[1].

Tra le misure più conosciute vi sono senza dubbio il programma “Garanzia Giovani” e il “reddito di cittadinanza”.

Ma andiamo a vedere più del dettaglio come reagiscono gli Italiani a queste politiche attive.

“Garanzia giovani” è un programma che si rivolge alle imprese e ai datori di lavoro che vogliono inserire nel proprio organico risorse giovani e formate, e al contempo, beneficiare delle agevolazioni previste dal programma stesso che consistono in bonus per le nuove assunzioni (tirocini, apprendistati o passaggi da tirocinio a contratto di lavoro). Inoltre, sono anche previsti degli strumenti per agevolare l’autoimprenditorialità dei giovani che vogliono mettersi in proprio[2].

Anpal rispetto all’adesione a “Garanzia Giovani” riporta dei dati molto interessanti, infatti, al 31 luglio 2022 i Neet (Not (engaged) in Education, Employment or Training, ovvero coloro che non studiano e non lavorano) registrati al programma erano 1.681.329, con un incremento di 7.281 unità rispetto a giugno. I servizi per l’impiego hanno preso in carico più dell’85% dei registrati e di questi quasi l’80% è costituito da giovani con elevate difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro.

Al termine del percorso quasi il 68% degli iscritti ha trovato occupazione e molti di questi a tempo indeterminato. C’è però da precisare che il divario Nord e Sud Italia si percepisce anche in queste stime con lo svantaggio del meridione[3].

In ogni caso, al di là delle disparità territoriali, emerge chiaro il fatto che i giovani italiani oggi sono motivati a trovare una soluzione alla loro condizione di precarietà, lavorando su sé stessi, formandosi e creandosi un’alternativa valida alla disoccupazione e alla povertà.

Discorso diverso invece deve essere fatto per un altro strumento: il tanto discusso e dibattuto “reddito di cittadinanza”.

Questo è una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, che è stata introdotta nel marzo 2019 e che si esplica in un sostegno economico che si integra al reddito familiare. Questa misura oltra a prevedere un sussidio per un lasso di tempo determinato, prevede anche un percorso di reinserimento lavorativo e sociale siglato da un patto di lavoro o un patto di inclusione sociale[4].

Ogni regione italiana, dunque, si è mossa per favorire l’utilizzo di questo strumento, confidando nella sua utilità e in una effettiva possibilità di riqualificazione di quei nuclei familiari più svantaggiati e in difficoltà.

Oggi però, a quasi tre anni dall’introduzione del RDC, nonostante siano molte le persone che hanno richiesto e beneficiato di questo strumento, nono sono altrettanto numerose coloro che hanno concluso il percorso di reinserimento lavorativo. Il quadro infatti è abbastanza allarmante al nord come al sud Italia.

  • In Campania, per esempio, negli ultimi 18 mesi gli imprenditori campani hanno caricato sull’apposita piattaforma MyAnpal 9945 offerte di lavoro, ma le assunzioni di chi percepisce il reddito di cittadinanza sono pari a zero. Nel settore dei servizi dove vi sono più vacancies aperte, non è stata registrata alcuna assunzione, nel settore dell’edilizia invece, su 1716 offerte, vi sono state solo 74 assunzioni[5].

Questo a dimostrare che nonostante vi siano possibilità di lavorare e nonostante i Centri per l’impiego si mobilitino per la ricerca di personale, i beneficiari di questa misura non fanno altrettanto; probabilmente perché non vi sono dei veri e propri controlli nel processo, né sono previste sanzioni per coloro che rifiutano le offerte di lavoro proposte. Si specifica infatti, che i beneficiari del reddito, devono sottoscrivere un patto di lavoro con i centri per l’impiego, ma fino ad oggi, come detto, le prese in carico sono state veramente poche. In Campania nello specifico si sta provvedendo alla cancellazione dall’elenco dei beneficiari le persone con non rispettano il patto, ma la situazione è analoga anche in altre regioni d’Italia[6].

  • La Lombardia, per esempio, ha un quadro simile; infatti, nel 2021 a Milano, su più di 10.000 beneficiari convocati per un primo incontro e la presa in carico dai centri per l’impiego, solo circa 3600 si sono presentati, la restante parte ha completamente disertato o si è resa irreperibile tanto da spingere i suddetti centri a consegnare la convocazione tramite raccomandata. Nel 2022 la situazione è anche peggiorata tanto che i beneficiari in carico sono addirittura dimezzati[7].

Senza dubbio sono ancora molte le misure da poter introdurre e tanto deve essere fatto sia da parte delle istituzioni sia da parte delle imprese e dei lavoratori, ma iniziare a sfruttare ciò che già si ha, potrebbe essere un primo passo verso una, almeno parziale, risoluzione della disoccupazione e della povertà, in un periodo storico in cui le crisi sembrano non voler smettere di susseguirsi.


[1]https://www.lavoro.gov.it/temi-epriorita/occupazione/Pagine/orientamento.aspx#:~:text=Le%20politiche%20attive%20del%20lavoro,occupazione%20e%20l’inserimento%20lavorativo.

[2] https://garanziagiovani.anpal.gov.it/cose-azienda

[3] https://www.anpal.gov.it/documents/552016/821517/S1_Nota+mensile+n7_luglio.pdf/3ff14e73-add0-8b66-a785-6df46eae7523?t=1665730071878

[4] https://www.redditodicittadinanza.gov.it/schede/dettaglio

[5] Iuliano, V., (2022) “Reddito di cittadinanza, in Campania 9.945 lavori ​ma nessuno li accetta”, Il mattino, online. https://www.ilmattino.it/napoli/politica/campania_reddito_di_cittadinanza_offerte_di_lavoro-6751242.html?refresh_ce

[6] Ibidem

[7] Gianni, A. (2022), “Reddito di cittadinanza, fuga dal Centro per l’impiego. Il 60% dei convocati non ci va”, Il giorno, online. https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/centro-impiego-fuga-reddito-cittadinanza-1.8160428 

 

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Giuliana Cristiano 

Tirocinante psicologa presso Selefor srl 

 

 

LA DISCIPLINA DEI COOKIE E LA LEGGENDA DEL LEGITTIMO INTERESSE

A cura di Giovanni Crea

Il provvedimento d’urgenza adottato dal Garante per la protezione dei dati personali lo scorso 7 luglio 2022 nei riguardi della piattaforma Tik Tok ha definitivamente chiarito l’inadeguatezza della base giuridica del legittimo interesse per i trattamenti di dati personali effettuati durante la navigazione in internet e individuati nella archiviazione di informazioni, o l’accesso a informazioni già archiviate, nell’apparecchiatura terminale di un abbonato o utente”.

Questa fattispecie di trattamenti (archiviazione di dati o accesso a dati archiviati), svolti attraverso l’impiego di tecnologie denominate ‘marcatori’ (cookies), è assoggettata al quadro normativo ‘speciale’ rappresentato dalla direttiva c.d. e-privacy, segnatamente l’art. 5.3 e, in diritto interno, dall’art. 122, d.lgs. 196/2003.

Con riguardo ai profili applicativi, vale la pena richiamare le Linee guida del Garante relative all’utilizzo dei cookie e “altri strumenti di tracciamento” in cui l’autorità, riferendosi alla categoria più generale degli ‘identificatori’, oltre i cookies distingue gli identificatori passivi (es., fingerprinting) che consentono di effettuare trattamenti analoghi a quelli sopra tratteggiati.

Le basi giuridiche che legittimano i trattamenti effettuati attraverso i predetti strumenti vanno pertanto ricercate all’interno del quadro ‘speciale’ che, come è immediato verificare, non contempla il legittimo interesse ai sensi del Regolamento (UE) 2016/679 (Gdpr).

La lex specialis prevede il consenso dell’interessato, a meno che i trattamenti siano indispensabili per effettuare trasmissioni di comunicazioni (più precisamente, instradare informazioni su una rete di comunicazione elettronica) finalizzate alla gestione operativa del sito del provider o per la fornitura di un servizio richiesto dall’utente.

Il consenso, dunque, copre tutti i trattamenti le cui finalità sono diverse dalla gestione del sito o dalla prestazione di un servizio, compresi i trattamenti svolti ai fini dell’invio di pubblicità personalizzata.

Per completezza argomentativa, va anche precisato che la base giuridica rappresentata dalla “necessità di gestione operativa del sito” non è ascrivibile a un legittimo interesse nel senso del Gdpr per il semplice motivo che il quadro speciale non prevede, per i relativi trattamenti, alcun test di bilanciamento.

In chiusura, va peraltro osservato che l’istruttoria svolta dal Garante ha fatto emergere come, anche nell’ipotesi in cui le eccezioni al consenso previste dalla direttiva e-privacy fossero riconducibili alla base giuridica del legittimo interesse ai sensi dell’art. 6.1.f), gdpr, il provider ne abbia fatto un uso comunque 'disinvolto'.

  • In primo luogo, perché non ha fornito - se non in modo astratto e insufficiente - elementi concreti che potessero dimostrare l’esecuzione del test di bilanciamento (in particolare, seguendo le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia UE nella sentenza Rīgas satiksme).
  • In secondo luogo, perché la scelta del fondamento giuridico è apparsa espressione di un criterio di convenienza piuttosto che un presupposto aderente alla realtà del trattamento, tenuto conto che in occasione di un precedente intervento del Garante la piattaforma aveva dichiarato l’applicazione del consenso per la somministrazione di pubblicità personalizzata ai maggiori di anni 16.

[1] Cfr. Gpdp, Provv. n. 248/2022, in Registro dei provvedimenti, https://garanteprivacy.it/ web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9788429

[2] direttiva 2002/58/CE come modificata dalla direttiva 2009/136/CE, in GUCE, L 337, 18.12.2009, p. 13.

[3] Cfr. Gpdp, Provv. n. 231/2021, in Registro dei provvedimenti e G.U. n. 163 del 9 luglio 2021.

[4] Cfr. Corte di giustizia Ue, causa C‑13/16, Rīgas satiksme, in Raccolta generale, 4 maggio 2017.

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Giovanni Crea

Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.

Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” presso Master Universitari e Corsi specialistici.

 

RIFLESSIONI SULLA NATURA DI ESSENTIAL FACILITIES DEI DATI PERSONALI

A cura di Giovanni Crea

L’esperienza dell’offerta di servizi attraverso internet (comprese le app) ha messo in luce come il loro consumo venga inevitabilmente codificato in dati (es., google maps) e come tali dati siano oggetto di trattamenti effettuati per finalità sia ‘tecniche’ – legate, cioè, alla fornitura e fruizione del servizio – sia di interesse economico del titolare del trattamento.

Con riguardo a quest’ultimo profilo, la disponibilità di grandi masse di dati (big data) rende possibile costruire profili degli utenti-interessati su cui ritagliare i propri servizi ovvero – spostandoci sul versante della raccolta pubblicitaria – per vendere spazi pubblicitari agli inserzionisti consentendo a questi di proporre a livello individuale i loro prodotti e servizi.

I mercati dei servizi internet, dunque, sono data intensive, e le posizioni dominanti che in essi si formano trovano nei dati personali una lèva essenziale [1] la cui replicabilità non è scontata in quanto riguardano i clienti dei provider e che gli stessi provider tendono a non diffondere per ragioni di vantaggio competitivo [2].

Questa prospettiva apre all’ipotesi della natura di essential facilities dei dati personali raccolti nei mercati di internet; profilo che, secondo la dottrina antitrust, è un elemento qualificante della posizione dominante, e la cui inibizione a potenziali concorrenti, da parte dei titolari, prefigura un abuso di tale posizione vietato dall’art. 102 TFUE.

Nel caso Google-Hoda [3], in cui ricorre l’ipotesi di ostacoli, da parte del motore di ricerca, alla portabilità dei dati – e dunque, in definitiva, all’accesso/trasferimento a favore di Hoda – l’Agcm sottolinea la valenza pro-concorrenziale di tale istituto, lasciando intendere come tali dati possano essere inquadrati nella categoria delle “risorse essenziali”.

Se i dati personali, descrittivi delle abitudini di consumo di beni e servizi forniti da un’impresa, fossero facilmente replicabili, la violazione dell’art. 20 del GDPR rileverebbe per il solo profilo di mancato esercizio di un diritto degli interessati e non anche per gli aspetti antitrust.

 


[1] Cfr. Agcm, Provvedimento n. 28051, Big Data, in Boll., n. 9/2020, 13 ss.

[2] Cfr. Agcm, Provvedimento n. 19140, Sfruttamento di informazioni commerciali privilegiate, in Boll., n. 47/2008, 5 ss.

[3] Cfr. Agcm, Provvedimento n. 30215, Google-ostacoli alla portabilità dei dati, in Boll., n. 27/2022, 83 ss.

 

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ARTICOLO THE CURRENCIES: LA BLOCKCHAIN

di Alessandro Di Capua

Che cos’è una blockchain?

Una blockchain è un database o libro mastro distribuito e condiviso tra i nodi di una rete di computer. In quanto database, una blockchain memorizza tutte le informazioni in formato digitale. Le blockchain sono note soprattutto per il loro ruolo cruciale nelle criptovalute, come Bitcoin, al fine di mantenere un registro sicuro e decentralizzato delle transazioni. La Blockchain garantisce la sicurezza di un database di dati senza la necessità di una terza parte.

Differenze con un semplice Database

Una differenza fondamentale tra un tipico database e una blockchain è il modo in cui sono memorizzati i dati. Una blockchain raccoglie le informazioni in gruppi, noti come blocchi, che non sono altro che un insieme di informazioni. I blocchi hanno una certa capacità di memorizzazione e, una volta riempiti, vengono chiusi e collegati al blocco precedentemente riempito, formando una catena di blocchi da qui il nome BLOCKCHAIN. Tutte le nuove informazioni che seguono il blocco appena aggiunto vengono inserite in un nuovo blocco, una volta riempito, viene aggiunto alla catena e così via.

Un database di solito struttura i suoi dati in tabelle, mentre una blockchain, come dice il nome stesso, struttura i suoi dati in blocchi che sono collegati tra loro. Questa struttura di dati rende dunque irreversibile la cronologia dei dati quando è implementata in modo decentralizzato. Quando un blocco viene riempito, viene fissato nella catena e diventa quindi un pezzo immutabile di questa linea temporale. A ogni blocco della catena viene infatti assegnato un timestamp, un codice che attesta il momento esatto in cui viene aggiunto alla catena.

Dunque come funziona la blockchain

  • Ogni transazione viene registrata come un “blocco” di dati. 

Queste transazioni mostrano il movimento di un bene che può essere tangibile (un prodotto) o intangibile (digitale). Il blocco di dati può registrare diverse informazioni: chi, cosa, quando, dove, quanto e persino le condizioni, come la temperatura di una spedizione di prodotti alimentari…

  • Ogni blocco è collegato a quelli precedenti e successivi.

Questi blocchi formano una catena di dati quando un bene si sposta da un luogo all’altro o cambia proprietà. I blocchi confermano l’ora esatta e la sequenza delle transazioni e si collegano tra loro in modo sicuro per impedire che un blocco venga alterato o che un blocco venga inserito tra due blocchi esistenti.

  • Come detto le transazioni sono bloccate insieme in una catena irreversibile:

Ogni blocco aggiuntivo rafforza la verifica del blocco precedente e quindi dell’intera blockchain. Ciò rende la blockchain inattaccabile, offrendo la forza chiave dell’immutabilità. In questo modo si elimina la possibilità di manomissione da parte di malintenzionati e si crea un registro delle transazioni di cui l’utente e gli altri membri della rete possono fidarsi.

Tipologie di BlockChain:

  1. Reti blockchain pubbliche: Una blockchain pubblica è quella a cui chiunque può aderire e partecipare, come ad esempio Bitcoin. Gli svantaggi possono essere la notevole potenza di calcolo richiesta, la scarsa o nulla privacy delle transazioni e la scarsa sicurezza. Si tratta di considerazioni importanti per i casi di utilizzo della blockchain in ambito aziendale.
  2. Reti blockchain private:Una rete blockchain privata, simile a una rete blockchain pubblica, è una rete peer-to-peer decentralizzata. Tuttavia, un’organizzazione governa la rete, controllando chi può partecipare. A seconda del caso d’uso, questo può aumentare significativamente la sicurezza tra i partecipanti. Una blockchain privata può essere gestita dietro un firewall aziendale e persino ospitata in sede.
  3. Blockchain consortili: Più organizzazioni possono condividere le responsabilità di gestire una blockchain. Queste organizzazioni preselezionate determinano chi può inviare transazioni o accedere ai dati. Una blockchain consortile è ideale per le aziende quando tutti i partecipanti devono essere autorizzati e hanno una responsabilità condivisa per la blockchain.

Perché la blockchain è importante: Qualsiasi business si basa sui dati per cui quanto più velocemente vengono ricevuti e quanto più sono accurati, tanto meglio è. La blockchain è ideale per questo utilizzo perché rende visibili questi dati nell’immediato e in modo completamente trasparente, dato che sono memorizzate su un libro mastro immutabile a cui possono accedere solo i membri della rete autorizzati. Una rete blockchain può tracciare ordini, pagamenti, conti, produzioni e molto altro. E poiché i membri hanno davanti un’unica blockchain, è possibile vedere tutti i dettagli di una transazione da cima a fondo, offrendo maggiore fiducia all’azienda, ai dipendenti e ai clienti stessi.

 

Cookie: cosa sono, a cosa servono e quando è utile stare attenti

di Giuliana Cristiano

Il garante per la protezione dei dati personali definisce i cookie come “stringhe di testo che i siti web visitati dagli utenti (cd. Publisher, o “prime parti”) ovvero siti o web server diversi (cd. “terze parti”) posizionano ed archiviano all’interno del dispositivo terminale dell’utente medesimo, perché siano poi ritrasmessi agli stessi siti alla visita successiva[1], in altre parole i cookie sono uno strumento molto utile perché hanno come scopo principale quello di migliorare la navigazione dell’utente[2] e di aiutare le aziende, in particolare quelle operanti nel settore commerciale, a studiare le caratteristiche di quanti cliccano sulle pagine web di interesse, in modo da potergli mostrare ciò che più si avvicina alle loro preferenze e al loro stile di vita.

In questi termini però il concetto di cookie potrebbe apparire banale, ma non lo è affatto, dunque bisogna fare una precisazione: per il caso appena esposto, di solito si parla di “cookie di profilazione” che servano quindi principalmente a fini pubblicitari. Sostanzialmente la loro funzione è evidente quando, dopo aver cercato su Googlevoli per l’India”, per le ore successive ovunque (sui social, su altri siti, ecc…) iniziano a comparire spot di compagnie aeree, talvolta mai sentite prima, che mostrano il prezzo più vantaggioso per la tratta Napoli – Bombay.

A questi si aggiungono i “cookie analitici” che invece vengono utilizzati principalmente a scopo di analisi statistica per comprendere ad esempio quante volte una persona in particolare ha usufruito di un servizio, oppure che tipo di persona di solito consulta un determinato tipo di informazioni.

I cookie inoltre possono essere utili per l’esecuzione di autenticazioni informatiche, per la memorizzazione di informazioni su specifiche configurazioni riguardanti gli utenti che accedono al server, per memorizzazione delle preferenze, o per agevolare la fruizione dei contenuti on line, ad esempio, per ricordare le informazioni per la compilazione di un modulo online, il numero della carta di credito, l’indirizzo di casa a cui inviare una spedizione e così via, per tutti questi è fondamentale che il sito richieda l’autorizzazione al trattamento dei dati tramite un’apposita sezione. Tale richiesta invece non è necessaria per i cosiddetti “cookie tecnici” che hanno lo scopo di permettere all’utente di usufruire di un particolare servizio espressamente richiesto senza utilizzare i dati raccolti per secondi fini, tant’è vero che, non di rado, sono già istallati dal web creator.

I cookie tecnici, a differenza di quelli descritti precedentemente, non soltanto semplificano alcune procedure, ma le rendono anche più sicure: un esempio di utilizzo sono le operazioni sul proprio conto bancario online (il pagamento di abbonamenti o bollette, l’invio di bonifici o anche semplicemente la visualizzazione dei movimenti di denaro in entrata e in uscita), in questo caso i cookie servono soprattutto per l’identificazione dell’utente e quindi per evitare truffe e attività illecite[3].

Sin qui sembra che tutto sommato la natura del cookie non sia così malvagia, e infatti non lo è, anzi, può essere davvero un’agevolazione nella navigazione quotidiana, ma non bisogna essere superficiali. Accettare indistintamente tutti i cookie (sfido chiunque ad ammettere di non averlo fatto almeno una volta) potrebbe agevolare gli hacker ad intercettare e rubare dati sensibili con ripercussioni significative sull’utente. Quante volte è capitato per esempio di ritrovarsi iscritti a siti a cui non avete mai fatto la registrazione consapevolmente? Quante volte invece vi siete trovati sommersi da mail spam con oggetto al quanto poco credibile del tipo: “Sei il milionesimo utente oggi, ti regaliamo 3000 euro, clicca qui”? Appurato che difficilmente qualcuno regali soldi per il puro piacere di farlo, e intimato di non cliccare mai “qui” con questo presupposti,  gli unici responsabili di queste mail o iscrizioni siamo noi utenti finali.

Per concludere, tenuto conto che spesso non accettare i cookie limita notevolmente la navigazione sul sito di interesse, la soluzione è quella di fare una pulizia periodica della cache attraverso le impostazioni del browser (Chrome, Firefox, Edge ecc…) e istallare un antivirus che prevenga, o quantomeno argini, il rischio di violazione dei dati personali.


[1] https://www.garanteprivacy.it/faq/cookie

[2] https://www.pandasecurity.com/it/mediacenter/mobile-news/cookie-pericolosi/

[3] https://www.garanteprivacy.it/faq/cookie

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Giuliana Cristiano 

Tirocinante psicologa presso Selefor srl 

Il processo di digitalizzazione in Italia, partire dalla formazione per un mercato del lavoro sempre più aperto al digital.

A cura di Redazione Crefis 

Nel 2014 la Commissione Europea ha introdotto l’indice DESI (Digital Economy and Society Index), lo scopo di quest’indice è quello di far convergere nel lungo periodo i mercati nazionali in un unico mercato digitale per valutare e misurare il processo di digitalizzazione sia in ambito economico che della società più in generale.

I dati di quest’anno per l’Italia non sono molto incoraggianti; infatti, per i 4 indicatori utilizzati (capitale umano; connettività; integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali), l’Italia si è posizionata agli ultimi posti.
Andando ad esaminare gli indici nel dettaglio emerge che: per il “capitale umano” (le competenze digitali della popolazione), siamo terzultimi in Europa, la quota di imprese che ha offerto formazione in ambito ICT ai propri dipendenti si ferma al 16%, contro una media europea del 20%; siamo ultimi nel continente per quota di laureati in ambito ICT sul totale della popolazione con una laurea.
Per quanto riguarda la “connettività” (cioè lo sviluppo della banda larga e la sua accessibilità) invece l’Italia si posiziona all’ultimo posto anche se bisogna considerare che questo dato è viziato dal forte divario tra famiglie che usano la banda larga, talvolta anche migliore di altri paesi, e famiglie in cui non la stessa non è adottata.
Rispetto all’”integrazione delle tecnologie digitali“, cioè quanto il digitale sia ormai permeato nelle imprese italiane, ci posizioniamo decisamente meglio, al decimo posto.
In ultimo per i “servizi pubblici digitali” emergono due situazioni diverse poiché, nonostante i servizi pubblici mettano a disposizione dell’utenza le proprie piattaforme digitali, solo una piccola parte dei cittadini usufruisce dei servizi online della Pubblica Amministrazione[1].

Il quadro è quindi ben chiaro, il Bel Paese dovrebbe investire molto di più sul processo di digitalizzazione.

Come farlo? Cambiando l’approccio già a partire dalla formazione dei giovani.

Dal report di Almalaurea del 2022, infatti, nonostante vi sia stato un sensibile aumento delle iscrizioni ai corsi STEM (+14% rispetto all’A.A. 2003/2004) e in ambito ICT, il numero di immatricolazioni è ancora basso, il tutto è inoltre associato al fatto che la laurea, in particolare in quest’ambito, sul mercato del lavoro è ancora poco valorizzata, è necessario apportare un cambiamento radicale nella cultura della società[2].

Selefor, che da diversi anni si occupa prevalentemente del settore ICT, ha chiesto alla responsabile del settore HR , dottoressa Raffaella Nolasco, un suo pensiero rispetto alle possibilità di assunzione di profili professionali in ambito digital

La Nolasco è fiduciosa, tiene a precisare che seppur vi siano ancora poche candidature, le posizioni aperte per figure professionali nel settore iniziano ad aumentare. Ciò significa che forse, anche grazie ai recenti stravolgimenti della quotidianità causati della pandemia, sia le aziende che i comuni cittadini che usufruiscono dei servizi online hanno preso consapevolezza di quanto la figura del programmatore (o in generale di tecnico informatico) sia essenziale anche per le attività più semplici (basti pensare all’assistenza informatica help desk) aumentando quindi il numero di richieste in questo ambito.
D’altronde la figura dello sviluppatore, in Italia, è ancora relativamente recente e soprattutto in continua evoluzione.

I candidati non occupati spesso o sono giovani, ancora in fase di formazione e quindi meno esperti di quanto l’azienda committente vorrebbe, oppure sono persone con un consisterete background esperienziale alle spalle e dunque una RAL molto più alta di quanto le aziende possono permettersi per competere.

Ma le potenzialità ci sono e sono molte, bisognerà solo investirci! 


[1] https://blog.osservatori.net/it_it/desi-indice-digitalizzazione-italia#:~:text=Il%20Digital%20Economy%20and%20Society%20Index%20(DESI)%20%C3%A8%20un%20indice,verso%20un%20unico%20mercato%20digitale.

[2] https://www.almalaurea.it/informa/news/2022/06/15/rapporto-almalaurea-2022

 

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Le smart cities: cosa sono e quanto sono diffuse in Italia

Di Giuliana Cristiano 

Le smart cities (in italiano: città intelligenti), nell’ambito dell’urbanistica e dell’architettura, consistono in un insieme di strategie di pianificazione dell’ambiente cittadino che hanno come obiettivo quello di apportare innovazione, e quindi ottimizzare, i servizi messi a disposizione per chi le abita, in modo da collegare al meglio il capitale umano, intellettuale e sociale (l’abitante) con le infrastrutture fisiche (palazzi, strade, mezzi di trasporto, etc.). Il fine ultimo è quindi incrementare la vivibilità di un luogo, rendendo alcuni processi quotidiani più veloci e più semplici, non soltanto per i singoli cittadini, ma anche per le imprese e le aziende che vi sorgono[1].

La Commissione Europea ha inoltre aggiunto che le smart cities non sono solo reti di servizi più efficienti, tale efficienza va oltre l’uso delle tecnologie digitali puntando ad un migliore utilizzo delle risorse e producendo meno emissioni[2].

Il concetto di Smart City, pertanto, è visto sempre più spesso come una soluzione strategica alle problematiche associate all’irreversibile processo di agglomerazione urbana e all’incremento del benessere dei cittadini[3].

È importante, dunque, non confondere le smart cities con le digital cities in quanto, seppur entrambe si avvalgono dell’uso delle più sofisticate tecnologie digitali; le prime le utilizzano in modo consapevole e lungimirante, prestando attenzione non solo ai vantaggi odierni, ma anche a quelli futuri. Le smart cities infatti puntano ad abbattere l’inquinamento, a smaltire correttamente i rifiuti e a utilizzare energie rinnovabili; questo approccio sostenibile non è invece prerogativa delle digital cities che puntano prevalentemente sull’ITC (information and communications technology).   

Uno dei primi a parlare e catalogare le caratteristiche le smart cities è stato Rudolf Giffinger che nel 2007, presso Centre Regional Science dell’Università di Vienna ha individuato i sei principali ambiti in cui le città intelligenti creano maggior valore socioeconomico:

  • Smart economy: competitività di mercato grazie ad elementi come innovazione, imprenditorialità, flessibilità di mercato
  • Smart people: consiste nel livello di istruzione dei cittadini, dunque, è il capitale intellettuale della città, in essa confluiscono aspetti quali capacità di integrazione e apertura verso il mondo esterno
  • Smart government: consiste in tutte quelle pratiche giuridiche che permettono un miglioramento del coinvolgimento del cittadino alla vita pubblica, inoltre favorisce lo sviluppo di nuove funzionalità amministrative
  • Smart mobility: consiste nell’insieme delle infrastrutture che permettono l’accessibilità locale e internazionale, in questo ambito confluiscono sia le reti ICT ed internet, sia la diffusione di sistemi di trasporto sostenibili.
  • Smart environnement: riguarda tutte quelle attività volte alla protezione e alla salvaguardia ambientale, dalla riduzione degli sprechi all’abbattimento dell’inquinamento     
  • Smart living: in quest’ultimo ambito rientrano tutte quelle operazioni di miglioramento generale della vita del cittadino che quindi coinvolgono il settore sanitario, edilizio, turistico e lavorativo[4]

Lo studioso, quindi, riassume i risultati dello studio spiegando che “una smart city è una città che genera performance sostenibili nel tempo in queste sei aree ed è costruita sulla base della combinazione intelligente di talento, consapevolezza e capacità dei suoi cittadini di prendere decisioni in modo indipendente”.

L’Italia, anche se con notevoli differenze regionali, si tiene al passo coi tempi. I dati della sesta edizione dello “Smart City Index” di EY hanno messo sul podio le città di Milano, Bologna e Torino che sono ritenute le prime città d’Italia “a misura di persona”. La classifica emersa è frutto di un’indagine che incrocia i dati su transizione ecologica, trasformazione digitale e inclusione sociale e cerca di capire quali siano le città già pronte a ridisegnare i propri spazi.  

Milano si conferma in vetta alla classifica in particolare sul tema della trasformazione digitale che coinvolge sia le infrastrutture fisiche che il comportamento dei cittadini e le loro competenze sull’uso dei servizi online. Bologna invece ha come punto di forza l’inclusione sociale e per finire Torino ha il primato per i processi di transizione ecologica.

Nel ranking si posizionano molto più in basso le città del centro-sud, infatti, la Capitale è solo al dodicesimo posto e per trovare la prima città del sud bisogna scendere fino al diciannovesimo posto con Cagliari e addirittura al trentaquattresimo con Napoli che comunque è la prima città meridionale in continente in base agli indici considerati[5].

Il lavoro da fare è ancora molto soprattutto nei piccoli centri abitati e nelle regioni a sud del Lazio, ma degli spiragli di luce ci sono e non devono essere ignorati, ma usati come lanterna per illuminare un tragitto che porterà di certo ad un futuro più smart.


[1] Enciclopedia Treccani https://www.treccani.it/vocabolario/smart-city_res-72b7b87c-89ec-11e8-a7cb-00271042e8d9_%28Neologismi%29/

[2] https://ec.europa.eu/info/eu-regional-and-urban-development/topics/cities-and-urban-development/city-initiatives/smart-cities_en

[3] De Santis, R., Fasano, A., Mignolli, N., & Villa, A. (2014). Il fenomeno smart cities. Rivista Italiana di Economia Demografia e Statistica, 68(1), 143-150.

[4] Giffinger, R., Fertner, C., Kramar, H., & Meijers, E. (2007). City-ranking of European medium-sized cities. Cent. Reg. Sci. Vienna UT9, 1-12.

[5] https://tg24.sky.it/economia/2022/06/29/smart-city-italia-classifica-2022#07

 

Giuliana Cristiano 

Tirocinante psicologa presso Selefor srl

 

 

 

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