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Servizi internet a pagamento

A cura di Giovanni Crea

Il trattamento di dati personali ‘ulteriore’ a quello necessario per la fruizione di un servizio on line (es., accesso a un sito internet) è soggetto al consenso dell’utente-interessato previsto dall’art. 5.3, primo periodo, della direttiva e-privacy . Il consenso dovrebbe derivare da un interesse della persona cui i dati si riferiscono per le finalità di tale ulteriore trattamento (es., ricevere pubblicità durante la navigazione).
La Direttiva (UE) 2019/770, che disciplina alcuni aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali riconosce lo scambio “servizio-dati”; nella prospettiva di tale direttiva il consenso – che si riferisce a una controprestazione in dati personali – è elemento strutturale del contratto.
Premesso che in caso di conflitto tra la Direttiva (UE) 2019/770 e il Regolamento(UE) 2016/679 (GDPR) prevale quest’ultimo, per essere considerato ‘libero’ ai sensi di tale regolamento, il consenso all’ulteriore trattamento non deve essere ‘obbligato’, ad esempio, ponendolo come condizione per l’accesso al servizio.

Come emerge dalle linee guida dell’EDPB , il gestore del sito (titolare del trattamento) deve prevedere un’alternativa con caratteristiche tali che l’eventuale scelta di rilasciare il consenso possa considerarsi libera. Sotto un altro profilo – invero non affrontato dall’EDPB – l’alternativa al consenso può essere portatrice di un diritto fondamentale; in tale evenienza, il diritto alla protezione dei dati personali – di cui, nel caso di specie, il “consenso libero” è espressione – deve trovare un equilibrio con la predetta alternativa. Per questo motivo la controprestazione monetaria, essendo espressione della “libertà d’impresa” riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue all’art. 16, di per sé non integra una violazione del GDPR con riguardo alle condizioni di validità del consenso.

Peraltro, in quanto alternativa al consenso, il pagamento in moneta descrive uno schema diverso dal cookie wall che, invece, non prevede alcuna alternativa, e che, come indica l’art. 7.4, gdpr, va tenuto nella massima considerazione ai fini della valutazione della libertà del consenso.
Va da sé che, in una prospettiva di bilanciamento degli interessi, la controprestazione monetaria non deve essere sproporzionata rispetto al servizio offerto, tale da far ripiegare l’interessato su un consenso che, con tutta probabilità, rifletterebbe una scelta non libera.

  • Ad es., con riguardo ai quotidiani on line, il prezzo praticato all’edicola potrebbe essere un utile riferimento per la fissazione del prezzo on line. Sicché, se il prezzo on line è uguale o anche inferiore al prezzo all’edicola si potrebbe ragionevolmente concludere che l’eventuale ripiego dell’interessato sul consenso sia espressione di una scelta libera.

[1] Cfr. Direttiva 2002/58/CE come modificata dalla Direttiva 2009/136/CE, in GUUE L 337, 18 dicembre 2009, p. 11 ss.

[2] Cfr. Direttiva (UE) 2019/770, relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali, in GUUE, L136, 22 maggio 2019, p.1 ss.

[3] Cfr. EDPB, Linee guida 5/2020 sul consenso ai sensi del regolamento (UE) 2016/679, 4 maggio 2020.

[4] Al riguardo, si rinvia al quarto considerando del GDPR secondo il quale il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità. Lo stesso considerando afferma che il GDPR rispetta tutti i diritti fondamentali e osserva le libertà e i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, sanciti dai trattati, tra cui la libertà d’impresa.

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Giovanni Crea

Direttore del Centro di Ricerca e Formazione Integrata Selefor, responsabile scientifico e Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico con delega Data Protection.
Economista, è professore incaricato di “Economia Aziendale e Processi di amministrazione del lavoro” presso l’Università Europea di Roma, dal 2014 insegna la materia di “Protezione dei dati personali” 
presso Master Universitari e Corsi specialistici.

 

 

Le smart cities: cosa sono e quanto sono diffuse in Italia

Di Giuliana Cristiano 

Le smart cities (in italiano: città intelligenti), nell’ambito dell’urbanistica e dell’architettura, consistono in un insieme di strategie di pianificazione dell’ambiente cittadino che hanno come obiettivo quello di apportare innovazione, e quindi ottimizzare, i servizi messi a disposizione per chi le abita, in modo da collegare al meglio il capitale umano, intellettuale e sociale (l’abitante) con le infrastrutture fisiche (palazzi, strade, mezzi di trasporto, etc.). Il fine ultimo è quindi incrementare la vivibilità di un luogo, rendendo alcuni processi quotidiani più veloci e più semplici, non soltanto per i singoli cittadini, ma anche per le imprese e le aziende che vi sorgono[1].

La Commissione Europea ha inoltre aggiunto che le smart cities non sono solo reti di servizi più efficienti, tale efficienza va oltre l’uso delle tecnologie digitali puntando ad un migliore utilizzo delle risorse e producendo meno emissioni[2].

Il concetto di Smart City, pertanto, è visto sempre più spesso come una soluzione strategica alle problematiche associate all’irreversibile processo di agglomerazione urbana e all’incremento del benessere dei cittadini[3].

È importante, dunque, non confondere le smart cities con le digital cities in quanto, seppur entrambe si avvalgono dell’uso delle più sofisticate tecnologie digitali; le prime le utilizzano in modo consapevole e lungimirante, prestando attenzione non solo ai vantaggi odierni, ma anche a quelli futuri. Le smart cities infatti puntano ad abbattere l’inquinamento, a smaltire correttamente i rifiuti e a utilizzare energie rinnovabili; questo approccio sostenibile non è invece prerogativa delle digital cities che puntano prevalentemente sull’ITC (information and communications technology).   

Uno dei primi a parlare e catalogare le caratteristiche le smart cities è stato Rudolf Giffinger che nel 2007, presso Centre Regional Science dell’Università di Vienna ha individuato i sei principali ambiti in cui le città intelligenti creano maggior valore socioeconomico:

  • Smart economy: competitività di mercato grazie ad elementi come innovazione, imprenditorialità, flessibilità di mercato
  • Smart people: consiste nel livello di istruzione dei cittadini, dunque, è il capitale intellettuale della città, in essa confluiscono aspetti quali capacità di integrazione e apertura verso il mondo esterno
  • Smart government: consiste in tutte quelle pratiche giuridiche che permettono un miglioramento del coinvolgimento del cittadino alla vita pubblica, inoltre favorisce lo sviluppo di nuove funzionalità amministrative
  • Smart mobility: consiste nell’insieme delle infrastrutture che permettono l’accessibilità locale e internazionale, in questo ambito confluiscono sia le reti ICT ed internet, sia la diffusione di sistemi di trasporto sostenibili.
  • Smart environnement: riguarda tutte quelle attività volte alla protezione e alla salvaguardia ambientale, dalla riduzione degli sprechi all’abbattimento dell’inquinamento     
  • Smart living: in quest’ultimo ambito rientrano tutte quelle operazioni di miglioramento generale della vita del cittadino che quindi coinvolgono il settore sanitario, edilizio, turistico e lavorativo[4]

Lo studioso, quindi, riassume i risultati dello studio spiegando che “una smart city è una città che genera performance sostenibili nel tempo in queste sei aree ed è costruita sulla base della combinazione intelligente di talento, consapevolezza e capacità dei suoi cittadini di prendere decisioni in modo indipendente”.

L’Italia, anche se con notevoli differenze regionali, si tiene al passo coi tempi. I dati della sesta edizione dello “Smart City Index” di EY hanno messo sul podio le città di Milano, Bologna e Torino che sono ritenute le prime città d’Italia “a misura di persona”. La classifica emersa è frutto di un’indagine che incrocia i dati su transizione ecologica, trasformazione digitale e inclusione sociale e cerca di capire quali siano le città già pronte a ridisegnare i propri spazi.  

Milano si conferma in vetta alla classifica in particolare sul tema della trasformazione digitale che coinvolge sia le infrastrutture fisiche che il comportamento dei cittadini e le loro competenze sull’uso dei servizi online. Bologna invece ha come punto di forza l’inclusione sociale e per finire Torino ha il primato per i processi di transizione ecologica.

Nel ranking si posizionano molto più in basso le città del centro-sud, infatti, la Capitale è solo al dodicesimo posto e per trovare la prima città del sud bisogna scendere fino al diciannovesimo posto con Cagliari e addirittura al trentaquattresimo con Napoli che comunque è la prima città meridionale in continente in base agli indici considerati[5].

Il lavoro da fare è ancora molto soprattutto nei piccoli centri abitati e nelle regioni a sud del Lazio, ma degli spiragli di luce ci sono e non devono essere ignorati, ma usati come lanterna per illuminare un tragitto che porterà di certo ad un futuro più smart.


[1] Enciclopedia Treccani https://www.treccani.it/vocabolario/smart-city_res-72b7b87c-89ec-11e8-a7cb-00271042e8d9_%28Neologismi%29/

[2] https://ec.europa.eu/info/eu-regional-and-urban-development/topics/cities-and-urban-development/city-initiatives/smart-cities_en

[3] De Santis, R., Fasano, A., Mignolli, N., & Villa, A. (2014). Il fenomeno smart cities. Rivista Italiana di Economia Demografia e Statistica, 68(1), 143-150.

[4] Giffinger, R., Fertner, C., Kramar, H., & Meijers, E. (2007). City-ranking of European medium-sized cities. Cent. Reg. Sci. Vienna UT9, 1-12.

[5] https://tg24.sky.it/economia/2022/06/29/smart-city-italia-classifica-2022#07

 

Giuliana Cristiano 

Tirocinante psicologa presso Selefor srl

 

 

 

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Smart-working e produttività: Come cambierà il lavoro nell’era Post-Covid 19

– a cura di Redazione Selefor CReFIS

L’inizio del nuovo decennio ha portato con sé notevoli mutamenti alla società, dovuti fondamentalmente alla dilagante infezione da covid-19 con cui tutt’oggi si combatte.

Nei primi mesi della pandemia, quasi tutti gli Stati del Mondo, Italia compresa, sono stati costretti ad un lungo periodo di chiusura totale; il lockdownha quindi inevitabilmente portato con sé delle conseguenze su diversi fronti, primo tra tutti sul lavoro.

Le aziende per contrastare le ingenti perdite dovute al significativo rallentamento della produzione e, in taluni casi, al totale blocco delle attività, hanno adottato uno stile di lavoro che il legislatore ha coniato con il termine “agile” – il cosiddetto “Smart working” -termine ormai entrato nel nostro vocabolario quotidiano. Il legislatore ha definito lo smart-working come una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva[1]. Fino al febbraio di 2 anni fa, tale forma di svolgimento del lavoro era praticato da soli 570mila lavoratori. Negli anni 2020 e 2021, invece, il numero di smart-worker ha raggiunto oltre 7,2 milioni garantendo così alle imprese, soprattutto del settore dei servizi, il mantenimento delle attività e ovviamente del fatturato[2].

Ma a 2 anni dall’inizio della pandemia, quando ormai l’economia mondiale sembra volersi lasciare alle spalle questi anni di incertezza, ci si chiede se e in che misura tale forma di lavoro continuerà ad essere praticata perché ritenuta vantaggiosa.

Senza dubbio i dati dimostrano che nel periodo pandemico, forse inaspettatamente, le aziende hanno continuato a produrre e a erogare servizi, alcune addirittura hanno incrementato il fatturato rispetto al periodo pre-covid [3](si pensi, per esempio, alle piattaforme di videoconferenza o alle aziende di delivery). Ma se da un lato lo smart-working agevola notevolmente la work-life balance, che impatto ha a lungo termine sull’impresa? Alcuni studiosi pensano che sia necessario prestare attenzione ad alcuni aspetti quali il senso di appartenenza all’organizzazione che potrebbe andare a perdersi nel corso del tempo e la condivisione degli obiettivi da perseguire. Camera, infatti, propone come soluzione una modalità mista che permetta, di conciliare sia gli interessi dal lavoratore che quelli del datore di lavoro; alla base di tutto ciò però deve esserci fiducia, responsabilità ed autonomia nella gestione delle attività[4].

Fondamentale infatti è rendersi conto che seppur siano tanti gli studi che attestano i vantaggi del lavoro da remoto, non per tutti i lavoratori è così; molti preferiscono tornare in ufficio perché le condizioni domestiche non consentono di dedicarsi adeguatamente al lavoro.

Si potrebbe dedurre che l’elevato numero di dimissioni che si sta registrando in questi mesi, oltre a questioni meramente salariali, è da ricondurre proprio a questi processi di senso di distacco dalla propria organizzazione e perdita di interesse che spingono alla ricerca di qualcosa di nuovo e più stimolante.

Peraltro, uno studio condotto su 11 paesi europei ha evidenziato un l’impatto negativo sulla produttività dello smart-working dovuto a due fattori: la mancanza di relazioni con gli altri colleghi che ha demotivato il lavoratore (60% degli intervistati) e la mancanza di apparecchiature tecnologiche adeguate da utilizzarsi in casa (40% degli intervistati); a questi due aspetti si aggiungono difficoltà a portare a termine un’attività in autonomia e le generali condizioni di lavoro svantaggiose (una su tutte la perdita di vincoli orari). Interessante è soprattutto il punto di vista del 73% dei dipendenti che ha affermato che se nei prossimi anni non si tornerà almeno in parte in ufficio, la motivazione si abbasserà sensibilmente[5].

Emerge un quadro ambivalente in cui se in determinati settori e per un determinato tipo di lavoratori sarà difficile tornare esclusivamente al lavoro tradizionale, per altri questo ritorno alla “normalità” è auspicato e desiderato. La soluzione come sempre forse sarà nel mezzo: è importante lavorare su un riassetto generale per accogliere le esigenze dei singoli dipendenti, gestendone le attività e incrementandone le competenze sia tecniche (incrementando le abilità digitali), sia trasversali; investendo anche su infrastrutture e attrezzature tecnologiche[6].

Ciò che è certo è che non si può tornare indietro (almeno in determinati settori). Lo smart-working ormai è parte integrante del nostro concetto di lavoro; rinnegarlo non sarebbe una soluzione, ma nell’epoca post-Covid si dovrà lavorare su un riassetto generale. Sarà infatti necessario agire sulla gestione dei dipendenti, sullo sviluppo delle competenze sia tecniche (incrementando le abilità digitali), sia trasversali, e la necessità di investire maggiormente in infrastrutture e attrezzature tecnologiche[7]


[1]  Legge 22 maggio 2017, n.81, articolo 18, comma 1
[2] Camera, R., Smart working: come dovrà essere utilizzato e rimodulato dalle imprese dopo il 31 marzo, in “IPSOA Quotidiano”, 5 febbraio 2022
[3] Querzè, R. La produttività cresce con la pandemia (grazie a smart working e digitale): i dati, in “Corriere della Sera”,  dicembre 2021
[4] Camera, R., Smart working: come dovrà essere utilizzato e rimodulato dalle imprese dopo il 31 marzo, cit.
[5]https://www.macitynet.it/smart-working-poco-produttivo-se-non-usano-le-tecnologie-adeguate/
[6] Criscuolo, C., et al., “The role of telework for productivity during and post-COVID-19: Results from an OECD survey among managers and workers”, OECD Productivity Working Papers, 2021, No. 31, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/7fe47de2-en.
[7] Criscuolo, C., et al., “The role of telework for productivity during and post-COVID-19: Results from an OECD survey among managers and workers”, OECD Productivity Working Papers, 2021, No. 31, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/7fe47de2-en.

 

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Redazione

Algoritmi sui posti di lavoro

– Di Giuliana Cristiano

Siamo nell’era della Gig Economy, un modello di business che si basa su contratti a chiamata e che utilizza massivamente le piattaforme digitali. I cosiddetti platform worker ovvero i lavoratori che dipendono dal software sono sempre di più numericamente, e i profili vanno gradualmente diversificandosi, gli esami più famosi sono sicuramente i rider, ovvero addetti alla consegna a domicilio di diversi tipi beni, ma vi sono anche addetti alla traduzione, addetti alla stesura dei testi, programmatori di software e ideatori di siti web[1]. Con questa nuova categoria professionale diventa indispensabile aprire un dibattito sulle nuove forme di diritto dei lavoratori che ad oggi sembrano essere poco tutelati[2].

I platform worker, infatti, lavorano alle dipendenze di un software che dà ordini e direttive da seguire rigidamente. Questo processo, anche se in parte può essere vantaggioso perché permette di accelerare i tempi e controllare pedissequamente il personale pur in assenza del dirigente, rischia di essere pericoloso per il dipendente stesso in quanto la macchina potrebbe apprendere (machine learning) e far proprio il pregiudizio umano[3].

Un aspetto che merita attenzione per lo svolgimento delle attività di questa nuova categoria di lavoratori sta proprio nel controllo; questo aspetto sembra far tornare alla mente la peggiore delle distopie Orwelliane secondo cui il modo migliore per far funzionare la società è controllarla. Anche Connolly sul Guardian sottolineò che oggi vige l’idea per cui per essere efficienti è necessario essere controllati[4]. Questo assillante bisogno di sorveglianza è sintomo di mancanza di fiducia da parte del datore di lavoro; ciò influenza anche il senso di appartenenza del lavoratore verso l’organizzazione.

Di conseguenza è lecita la domanda che si è posto Tiziano Milan: L’algoritmo controlla, ma chi controlla l’algoritmo? In questo caso la risposta sta nel Regolamento UE sui dati personali[5] secondo cui l’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, che possa produrre effetti giuridici che lo riguardano o effetti che incidano in modo analogo significativamente sulla sua persona[6].

Inoltre, sul piano giuslavoristico, in Italia il 24 novembre 2021 è stata registrata una prima importante vittoria; al riguardo, il Tribunale di Palermo ha riconosciuto la natura subordinata del rapporto di lavoro tra rider e piattaforma digitale. Questo significa che per la prima volta uno strumento digitale è stato equiparato ad un’impresa e in quanto tale ha tutti i diritti di esercitare forme di eterodirezione nei riguardi del proprio dipendente, ma allo stesso tempo dovrà garantire al lavoratore tutti i diritti previsti dall’ordinamento[7].


[1] https://terzomillennio.uil.it/2022/02/02/caporalato-digitale-una-app-e-un-algoritmo-come-datore-di-lavoro/
[2] De Stefano, V., Aloisi, A., Lavoro non-standard tra gig economy e pandemia: è l’ora di un modello universale di tutele e diritti in “Valigiablu.it” 2 dicembre 2020 https://www.valigiablu.it/lavoro-gig-economy-diritti/
[3] Moro, E., Algorithmic management e diritti dei lavoratori, in “4CLegal”, 20 maggio 2021
[4] Chiusi, F., La Rete è di tutti / Dignità per il lavoro con gli algoritmi, in “Valigiablu.it” 20 aprile 2022 https://www.valigiablu.it/algoritmi-lavoro-diritti/
[5] Parlamento Europeo E Del Consiglio, Regolamento (ue) 2016/679 del parlamento europeo e del consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/ce (regolamento generale sulla protezione dei dati)
[6] Milan, T., L’algoritmo come datore di lavoro, in “smartIUS”, 15 gennaio 2021
[7] Falasca, G., Ordini e sanzioni: così l’algoritmo diventa datore di lavoro, in “ilSole24Ore”, 30 gennaio 2021

 

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Giuliana Cristiano

Tirocinante Psicologa in Selefor s.r.l.

Commento al regolamento europeo sull’intelligenza artificiale

A cura di Redazione Selefor CReFIS 

La proposta di regolamento sull’intelligenza artificiale definisce quest’ultima come “una famiglia di tecnologie in rapida evoluzione in grado di apportare una vasta gamma di benefici economici e sociali in tutto lo spettro delle attività industriali e sociali[1].

La crescita esponenziale dell’adozione di queste tecnologie in tutti i settori della società moderna ha spinto le istituzioni europee a stilare una proposta di regolamento che possa disciplinare l’uso delle stesse in modo da evitare la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo e far sì che vi sia un mercato unico che tuteli tutti gli stakeholders. Inoltre, per incoraggiare l’innovazione sono stati proposti degli spazi di sperimentazione normativa (un sistema normativo meno stringente) per le PMI e le startup. La proposta di regolamento, redatta a Bruxelles il 21 aprile del 2021, si basa su quanto scritto nel “Libro Bianco sull’intelligenza artificiale” pubblicato nel febbraio 2020. L’approccio adottato dalla Commissione per sviluppare il regolamento si basa su una piramide del rischio che va da un livello “basso/medio” ad uno “elevato” per arrivare poi al culmine del “rischio inaccettabile”; in quest’ultima categoria rientrano tutti quei rischi legati alla sopracitata violazione dei diritti fondamentali che si possono esplicare con forme di razzismo, sessismo, violazione della privacy o forme di violenza fisica e psicologica[2]. L’idea è quella di applicare delle regole più o meno rigide in base all’entità del danno che l’uso improprio dell’IA può arrecare.

Partendo da questa classificazione piramidale, uno degli ambiti in cui l’IA viene impiegata con maggiore frequenza, grazie ai numerosi vantaggi tecnico-pratici che offre, è sicuramente quello del lavoro. Ormai sempre più attività prima prettamente umane, stanno cedendo il posto a quelle robotizzate (si pensi ad esempio alle grandi industrie di produzione di massa). I proprietari di queste aziende godono dei benefici più evidenti legati all’uso dell’IA, essa infatti garantisce più efficienza e più rapidità, con un impatto economico notevole. Eppure, nonostante possa sembrare controintuitivo l’IA, stando al “Libro Bianco”, permetterà un aumento dei posti di lavoro di 60 milioni di unità entro il 2025[3].

Ciononostante, la paura della crescita della disoccupazione non è diminuita; infatti, come detto, è desumibile che le occupazioni prettamente caratterizzate da attività routinarie saranno gradualmente estinte in quanto sostituite dalle macchine. Restano comunque indispensabili le abilità umane per la coordinazione delle attività dell’IA in modo che soprattutto in settori ad alto rischio si evitino errori fatali che possono avere ripercussioni gravi sull’azienda[4]. Da questa considerazione si intuisce la necessità di un adeguamento dell’uso dell’intelligenza artificiale in modo che la nuova generazione di lavoratori abbia un’impronta molto più manageriale e meno operaia, dunque, probabilmente già a partire dalla scuola e dalla formazione in generale sarà necessario puntare allo sviluppo di pensiero critico e creativo che non possa essere sostituito dalle apparecchiature elettroniche, ma che contribuisca come valore aggiunto.

Non è da sottovalutare infatti che non tutti i tipi di occupazioni sono realmente a rischio, il medico, lo psicologo, l’avvocato, ma volendo anche lo chef, l’insegnante e l’interior designer, che lavorano con la creatività, il ragionamento e la relazione, con ogni probabilità, non saranno succubi della macchina, ma padroni della stessa; ed in realtà è ciò che accade già in questo momento.

Su questi presupposti però si fonda il rischio di creare forti disuguaglianze in quanto coloro che hanno le conoscenze e le competenze adeguate riusciranno ad inserirsi nel nuovo mondo del lavoro, ma coloro che tali abilità non potranno acquisirle rischieranno la disoccupazione permanente[5] o, nella meno peggiore delle ipotesi, la dipendenza dalle decisioni di una macchina suscettibili di produrre effetti giuridici (e anche non giuridici) che incidono in modo significativo sull’interessato[6].

Si potrebbe quindi pensare che la soluzione più etica da parte delle aziende o industrie sia quella di non adottare strumenti IA, ma questa non può essere una soluzione in quanto imprese che non innovano e che non si tengono al passo con le nuove tecnologie rischiano nel giro di poco tempo di fallire, è quindi fondamentale un riassetto dell’intera cultura organizzativa in cui si spiega al dipendente non a temere la macchina ma a collaborare e a sfruttarla a proprio vantaggio in modo che apprenda e resti competitivo nel mondo del lavoro.


[1] Commissione Europea, Proposta di Regolamento, che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (legge sull’intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell’unione, 21.4.2021, COM (2021) 206.

[2] Commissione Europea, Libro bianco sull’intelligenza artificiale – Un approccio europeo all’eccellenza e alla fiducia, 19.2.2020 COM (2020) 65.

[3] Ibidem

[4] Lane, M., Saint-Martin, A., The impact of Artificial Intelligence on the labour market: What do we know so far?, in “OECDiLibrary”, 2021, n.256, pp.1-60.

[5] Balzano, G., Occupazione e disoccupazione, le due facce dell’AI, in AI4business, n.5, 2021.

[6] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, Ordinanza ingiunzione nei confronti di Foodinho s.r.l., Provvedimento n. 234/2021, in Registro dei provvedimenti

 

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L’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) sul mondo del lavoro: nuovi modelli organizzativi e nuovi compiti per l’HR

di Giuliana Cristiano 

L’introduzione delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro e delle organizzazioni è associabile, tra le altre cose, all’accelerazione tecnologica a cui si aggiunge una conseguente accelerazione dei cambiamenti sociali e dei ritmi di vita. Ci troviamo in quella fase storica che gli esperti hanno ribattezzato “era dell’industria 4.0” in cui le nuove tecnologie, sia nella produzione che nell’erogazione dei servizi, la fanno da padrona[1]. 

Nel mondo del lavoro, l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate non sta andando a sostituire solo i processi che prima richiedevano uno sforzo fisico, come la produzione industriale, ma gradualmente sta invadendo anche un settore che fino a poco tempo fa era squisitamente umano, per esempio i processi aziendali di decision making e lo scambio di informazioni. La svolta decisiva in questo senso è avvenuta grazie (o a causa) della diffusione capillare di internet che è diventato una componente essenziale della vita quotidiana della quasi totalità della popolazione attiva mondiale. L’uso massiccio della rete ha determinato, come effetto collaterale, un costante e velocissimo accumulo di dati che, se usati con astuzia, sono uno strumento indispensabile per chi ha necessità di conoscere l’utente ultimo a cui va erogato il servizio o va offerto un prodotto. I big data infatti abbinati all’intelligenza artificiale, permettono il cosiddetto “learning machine” ovvero fanno sì che la macchina (il software) letteralmente impari dai dati che gli vengono messi a disposizione [2].

L’intelligenza artificiale d’altronde non è altro che un ramo dell’informatica, nato nel 1956, che permette di programmare le macchine affinché possano avere caratteristiche cognitive tipicamente umane [3]. L’IA ha un impatto decisivo su diversi livelli, da quello individuale a quello della società. Gli stessi modelli organizzativi hanno subito e subiranno notevoli cambiamenti: le principali sfide da affrontare sono legate alla necessità di acquisire sempre maggiori competenze da parte del personale per il suo utilizzo, capacità quindi di affrontare gli eventuali problemi tecnologici, la necessità di un continuo controllo e il bisogno di fiducia, nonché una ridefinizione della life-work balance. I rischi principali per i lavoratori e le aziende si traducono nella riduzione della privacy, nella possibilità di sviluppare una dipendenza da queste tecnologie e un forte stress lavoro correlato che potrebbe sfociare addirittura nel burnout. I vantaggi però, se l’IA viene usata bene, sono notevoli, in quanto si riducono i costi, vi sono maggiori e migliori feedback sul lavoro da parte della macchina, vi è un miglioramento della qualità dei servizi e prodotti offerti, e se si agisce adeguatamente sulla pianificazione dello smart working, va ad avere risvolti positivi anche sella qualità della vita dei dipendenti. Nonostante alcuni studi tra il 2016 e il 2017 stimarono una sostituzione della manodopera umana con quella artificiale che andava dal 10%[4] al 47%[5], dati molto più recenti hanno dimostrato che la cultura aziendale e l’intelligenza artificiale sono due aspetti organizzativi che si influenzano reciprocamente, tanto che è stato sviluppato un modello detto “CUE” (Culture-Use-Effectiveness Dynamic)che dimostra quanto la cultura migliora l’uso dell’IA che a sua volta migliora i rapporti del team. Questo circolo determina più efficienza e alte prestazioni. Traendo le somme, se utilizzata con astuzia e senza pregiudizio, l’intelligenza artificiale può essere una potente arma verso l’innovazione e il successo dell’azienda sia dal punto di vista produttivo che di benessere del lavoratore[6].

In questo contesto il lavoro degli HR è molto interessante in quanto oltre ad occuparsi della condizione di benessere del lavoratore già assunto, di cui abbiamo parlato poc’anzi, si occupano di acquisizione di nuovi profili. Se fino a qualche anno fa, il recruiter doveva scegliere tra una vasta gamma di offerenti che si proponevano attivamente, oggi, anche grazie alle nuove tecnologie, la cultura del lavoro è cambiata al punto che il potenziale lavoratore è fondamentalmente passivo, carica il suo cv su piattaforme ad hoc e aspetta che sia l’azienda a proporsi. L’HR, quindi, può lasciare l’onere dello screening al software per dedicarsi ad un’attività più lungimirante: la talent acquisition, cioè non semplicemente il processo di ricerca di un lavoratore, ma la ricerca del “talento” adatto all’azienda non soltanto nella risoluzione del problema odierno, ma anche in visione dell’evoluzione dell’azienda stessa e dei suoi problemi a lungo termine[7].

Anche per il recruiting però bisogna agire con cautela: sono diversi, infatti, i casi in cui l’utilizzo dell’IA ha avuto esiti negativi sull’azienda, in particolare un esempio clamoroso è stato quello della grande multinazionale Amazon che a partire dal 2014 ha iniziato ad utilizzare un software per la selezione dei nuovi dipendenti da assumere. A questo software “era stato insegnato” a selezionare i candidati basandosi sui dati estrapolati dei curriculum di dipendenti assunti nei 10 anni precedenti, prevalentemente uomini: si arrivò al punto che la macchina aveva imparato che assumere uomini fosse meglio prediligendo CV con parole come: “eseguito” o “acquisito” tipiche degli ingegneri maschi e scartando quelli in cui c’era scritto “delle donne” o simili. Il software era sessista. Nonostante diversi accorgimenti la situazione non migliorò così il progetto fallì nel 2017[8], lasciando un insegnamento che almeno per ora non può essere ignorato: quando si tratta di scelte sul versante etico e morale, l’uomo ha e deve avere ancora la meglio sulla macchina.   


[1] Falcone, R., Capirci, O., Lucidi, F., Zoccolotti, P., Prospettive di intelligenza artificiale: mente, lavoro e società nel mondo del machine learning, in “Giornale italiano di psicologia”, n.1, pp.43-68, 2018.

[2] Ibidem

[3] www.Intelligenzaartificiale.it 

[4] Arntz M.T., Gregory T., Zierahn U., The Risk Of Automation For Jobs In Oecd Countries: A Comparative Analysis, in “OECD Social, Employment And Migration Working Papers”, n. 189, 2016.

[5] Frey C.B., Osborne M.A, The Future Of Employment: How Susceptible Are Jobs To Computerization?, in “Technological Forecasting And Social Change”, n. 114, pp. 254-280, 2017.

[6] Ransbotham, S., Candelon, F., Kiron, D., LaFountain, B., Khodabandeh, S., The Cultural Benefits of Artificial Intelligence in the Enterprise, in “MIT Sloan Management Review and Boston Consulting Group”, novembre 2021.

[7] Alashmawy, A., Yazdanifard, R., A Review of the Role of Marketing in Recruitment and Talent Acquisition, in “International Journal of Management, Accounting and Economics”, n. 7, pp. 569-581, 2019.

[8] De Casco A. F., Amazon e l’intelligenza artificiale sessista: non assumeva donne, in “Corriere della Sera – Tecnologia”, 10 ottobre 2018 online: https://www.corriere.it/tecnologia/18_ottobre_10/amazon-intelligenza-artificiale-sessista-non-assumeva-donne-4de90542-cc89-11e8-a06b-75759bb4ca39.shtml  

 

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Giuliana Cristiano 

Dottoressa in Psicologia applicata ai contesti istituzionali
Psicologa Tirocinante in Selefor srl  

Dall’idea al prodotto finale: l’uso intelligente dei big data

Di Giuliana Cristiano

Eric Ries nel 2012 definì la startup come “un’istituzione umana studiata per creare nuovi prodotti e servizi in condizioni di estrema incertezza”. Seppur con questo termine si va ad inquadrare una impresa allo stato nascente (in Italia con meno di cinque anni), lo startupping deve essere considerato più una filosofia imprenditoriale dedita alla continua innovazione e trasformazione, in cui quindi l’uso della tecnologia a proprio vantaggio ne è l’essenza[1]. L’imprenditore, in questo caso spesso definito con l’anglicismo “founder”, è un individuo ambizioso e consapevole che seppur stia rischiando investendo una somma di denaro più o meno ingente sulla propria idea, lo sta facendo con lo scopo di apportare un cambiamento prima alla propria realtà e poi a quella globale[2].

La startup, quindi, paradossalmente più che un fine imprenditoriale, potrebbe essere concepita come un mezzo attraverso cui permettere il cambiamento.

È importante tener presente che innovare non significa solo inventare qualcosa di nuovo, ma anche analizzare l’esistente e modificarlo per renderlo accessibile ad altri[3]. Il punto di forza sta nell’essere in grado di osservare il mondo ragionando fuori dagli schemi evitando di cadere nella cosiddetta doppia opacità: non vediamo altre alternative alla realtà e non ci accorgiamo di non vederle[4].

Ma quindi oggi nel pieno della nuova era industriale in cui la trasformazione digitale la fa da padrona, come si può superare tale opacità e rendere la realtà più “trasparente”?

I big data sembrano essere l’arma vincente e la risposta a questo quesito, in quanto permettono una perenne innovazione e garantiscono la competitività sul mercato[5]. Assumere un modello organizzativo che non contempli l’uso di questi dati con il passare del tempo potrebbe diventare rischioso in quanto le aziende potrebbero gradualmente perdere terreno e addirittura fallire[6].

Prima di approfondire è necessario dare una definizione di “big data”: con questo termine si intende un insieme molto vasto di dati derivanti sia dalle attività concrete burocratiche, legislative, economiche e di pianificazione, sia un accumulo spontaneo di informazioni derivanti dall’uso sempre più consistente di internet in cui vi è un perenne scambio di informazioni[7] spesso anche molto personali come preferenze, stile di vita, ambizioni e aspettative.   

Gli imprenditori, dunque, devono avere nel team qualcuno che sappia maneggiare con abilità quest’arma in particolar modo tenendo in considerazione l’estremo potere dei social su cui ognuno riversa la propria vita. Capire quali sono i gusti, le preferenze, lo stile di vita, le ambizioni e i valori del costumer, permette di vendere meglio e di più e quindi garantisce non solo la sopravvivenza dell’impresa e il suo successo, ma anche la soddisfazione del cliente.

D’altronde lo stesso Ries, nel 2012, propose di “uscire dal palazzo” cioè incontrare i consumatori e capirne le esigenze sviluppando un prodotto che sia in linea con le stesse[8].

I big data però possono avere anche dei risvolti negativi in quanto la quantità, la velocità di accumulo e la varietà degli stessi, potrebbe generare confusione e innescare bias “di conferma”, problemi di comunicazione e illusione di controllo, ma utilizzando il metodo lean startup ciò potrebbe essere arginato in quanto esso si fonda sulla perenne verifica “scientifica” delle idee e delle ipotesi manageriali. Questo processo è decisamente funzionale soprattutto per quelle realtà organizzative con alti livelli di incertezza tecnologica come le startup o in generale le aziende che puntano all’innovazione[9].

Traendo le somme il processo circolare che conduce allo sviluppo e permette costante innovazione nonché quindi il successo dell’impresa, è rappresentabile come una sequenza input-output:

 


[1] Ries, E., La startup way, Franco Angeli Editore, Milano 2017.

[2] Schumpeter, J. A., Teoria dello sviluppo economico, Milano, ETAS 2002.

[3] Ries, E., Partire leggeri: il metodo lean startup,  Rizzoli, Milano, 2012.

[4] Ota de Leonardis, Istituzioni, Carocci Editore, Roma 2001.

[5] Behl, A., Antecedents to firm performance and competitiveness using the lens of big data analytics: a cross-cultural study, in “Management Decision”, n.2, 2022, pp. 368-398.

[6] Nuccio M, Guerzoni M., Big data: Hell or heaven? Digital platforms and market power in the data-driven economy, in “Competition & Change”. N.3, 2019, pp.312-328.

[7] Aragona, B., Big data o data that are getting bigger?.  In “Sociologia e ricerca sociale” n. 109, 2016, pp. 42-53.

[8] Ries, E., Partire leggeri: il metodo lean startup, cit.

[9] Seggie, S. H., Soyer, E., & Pauwels, K. H., Combining big data and lean startup methods for business model evolution, in “AMS Review”, n.3, 2017, pp. 154-169.

 

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Giuliana Cristiano 

Dottoressa in Psicologia applicata ai contesti istituzionali
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